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Il punto zero della democrazia

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Punto di partenza è che la Costituzione repubblicana vigente disegna una demo­crazia pluralista, basata sul primato dei diritti eguali per tutti e sulla separazione dei poteri, senza supremazia dell’uno su­gli altri, ma con reciproci bilanciamenti e controlli. A questa concezione di demo­crazia se ne vorrebbe sostituire un’altra: basata sul primato della politica (meglio, della maggioranza politica del momento) e non più sul primato dei diritti.

Ora, è vero che in democrazia la so­vranità appartiene al popolo (per cui chi ha più consensi, chi ha la maggioranza, ha il diritto-dovere di operare le scelte politiche che vuole), ma è altrettanto vero che ogni potere democratico incon­tra – non può non incontrare – dei limiti prestabiliti. Tali limiti presidiano una sfera non decidibile, quella della dignità e dei diritti di tutti: sottratta al potere del­la maggioranza e tutelata da custodi (una stampa libera e una magistratura in­dipendente) estranei al processo elettora­le ma non alla democrazia.

Questa necessità di limiti (che la nostra Costituzione stabilisce fin dal suo primo articolo) è fondamentale in democrazia. Altrimenti, come già insegnava quasi due secoli fa Alexis de Toqueville, può sempre essere in agguato la tirannide del­la maggioranza.

Chi vince prende tutto? 

La vera democrazia garantisce spazi anche alle minoranze, spazi effettivi. Per­ché se questi spazi non sono effettivi, se la maggioranza che ha avuto più consen­so si prende tutto, allora l’alternanza, che è la quintessenza, il dna della democra­zia, viene ridotta a simulacro e la demo­crazia cambia qualità. La posta in gioco in sostanza è questa: è meglio il tipo di democrazia voluto dalla Costituzione, oppure quello che si sta cercando di so­stituirgli? Quale dei due conviene di più ai cittadini?

E ancora: se prevedere un abnorme premio di maggioranza e liste di “nomi­nati”, con inevitabili decisive ricadute sull’elezione del Capo dello Stato, e sulla composizione del CSM e della Consulta, equivale ad un fortissimo po­tenziamento dell’ esecutivo, come non chiedersi fino a che punto esso sia com­patibile con una autentica democrazia?

Viene in mente Calamandrei, quando ammoniva che la Costituzione non è una macchina che va avanti da sola.Perché si muova bisogna ogni giorno metterci den­tro il combustibile, cioè im­pegno e re­sponsabilità.

“Che m’importa della politica…” 

Per questo, dice Calaman­drei, una del­le peggiori offese che si pos­sano fare alla Costituzione è l’indifferen­za alla politica, quella che spesso ci porta a dire che “La politica è una brutta cosa, che cosa mi importa della politica…”.

Calamandrei a questo discorso oppo­ne un apologo, quello dei due migranti, due contadini, che attraversano l’oceano su un piroscafo traballante: uno dorme nella stiva, l’altro sta sul ponte; c’è una grande burrasca, onde altissime; il piro­scafo oscilla e il contadino impaurito do­manda a un marinaio se c’è pericolo; il marinaio gli risponde che se continua così in mezz’ora il bastimento affonda; allora il contadino corre nella stiva, sve­glia il compagno e gli grida “Beppe! Beppe! Se continua questo mare, il basti­mento affonda!”; ma quello gli risponde “Che me ne importa, non è mica mio il bastimento!”.

“Mica è mio il bastimento!” 

Questo, conclude Calamandrei, è l’indifferentismo alla politica. Ma atten­zione: “la libertà è come l’aria. Ci si ac­corge di quanto vale quando comincia a mancare, quando si sente quel senso di asfissia che gli uomini della mia genera­zione hanno sentito per vent’anni e che io auguro a voi giovani di non sentire mai”. Questo l’augurio di Calamandrei. Un augurio che vale ancora oggi.

Gian Carlo Caselli – tratto da I Siciliani

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Redazione

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