Nessun realismo e nessuna costruzione è possibile con le guerre e l’egoismo consumista neoliberista, col dominio e lo sfruttamento di pochissimi (sempre meno) sul resto dell’umanità, nessuna umanità è possibile tra le mura d’acciaio del “Grande Gendarme” del grido di Ernesto Balducci trent’anni fa.
L’unico germe di futuro è abbatterle quelle mura, è guardare verso i miliardi di vittime – è il monito appassionato di Dino Frisullo, guardare il mondo con gli occhi delle vittime – e non farsi addomesticare da una non visuale piccolo borghese, complice, che fa sempre più rabbia, schifo e malinconia. Come cantava un altro grandissimo che ci ha lasciato, nell’agosto di tre anni fa: Claudio Lolli.
È stato una parte importante della storia di tantissimi di noi, quella storia che non troveremo mai sui libri, che non conquisterà mai il grande pubblico, che non è mai stata neanche del tutto vissuta e scritta. Ma è la più vera, autentica, pulita, umana. Di rabbia e malinconia, di amori persi negli autobus e di piazze da riconquistare, di un grande freddo che ci opprime e del male di un’umanità sempre più in cerca di se stessa. Una sorta di male di vivere di chi si sente straniero rispetto al mondo che lo circonda, alle sue borghesi dinamiche e al suo amalgamarsi quotidianamente, alla sopravvivenza mediocre spacciata come grande vita.
Un male di vivere che non si rinchiude in se stesso perché per chi soffre veramente il dolore degli altri, parafrasando De André, non è mai un dolore a metà. Le canzoni di Claudio Lolli raccontano da generazioni il malessere di questa società senza autentico amore, in cui gli ideali marciscono e l’animo umano (quando esiste ancora) è prigioniero di un freddo sempre più grande. Ma che, nonostante tutto, non si vuole arrendere. Il grande freddo e la piazza, bella piazza ci indica la bussola per sopravvivere in questa disumana società: cercare di illuminare e riscaldare nel dominio dei colletti bianchi e dei grigi doppiopetti, dei potenti sempre più arroganti e dell’iniquità contro i più deboli e fragili.
La malinconia di Claudio spinge ad andare oltre, ad aprire finestre verso il sole anche quando è notte fonda, a sognare e vivere i sogni, guardando con sguardo diverso e colorato questo mondo imprigionato nelle catene della borghesia. Il mondo di Claudio Lolli (così come di Faber) sono i luoghi dove si può bere e conversare in compagnia di un barbone, di un emarginato, di uno sconfitto, delle pietre di scarto di questa società da cui invece possono nascere i fiori.
È il mondo in cui una prostituta vale più di una baronessa, in cui la cultura pullula nei bassifondi della società e i feudi borghesi sono aridi, non interessanti, vuoti e stantii. Da vivere nei vicoli scuri, nei luoghi dove il buon Dio non dà i suoi raggi, dove accarezzare troppo le gobbe, riconoscere i nostri fratelli e vivere felici in Piazza Maggiore ubriacandosi di luna, la terra di nessuno è la nostra terra e l’amore non viene lasciato fuori dagli autobus.
Viviamo tempi di una sofferenza e di un’ingiustizia e oppressione sociale che strappa il cuore, un’angoscia quotidiana che divora e lacera le carni come una coltellata continua, roba da non dormire la notte e stare male a ogni ora del giorno e della notte, senza mai trovare riposo (come si può anche solo pensare di farlo mentre c’è chi crepa e viene violentato nell’animo e nel corpo ogni santo secondo da ingiustizie, prepotenze, oppressioni le più diverse?), che fa piangere per il dolore che senti nelle viscere. E quindi questo mondo piccolo borghese, queste quotidiane convenzioni sociali di una società che si divide in pre-potenti e lacché, feudatari e servi provocano solo il vomito, la nausea, ci si sente sempre più stranieri e alieni.
Diventa vitale rivolgersi altrove, cercare nuove «patrie», asilo politico in altre piazze e case. Dove non ci siano pre-potenti, ricchi e uno stile di vita egoistico e sfrenato. Dove non si marcisca – per dirla con Pasolini – «in un benessere che è egoismo, stupidità, incultura, pettegolezzo, moralismo, coazione, conformismo».
E in questo mondo, re e regine, cittadini e animatori sarebbero gli ultimi, gli emarginati, i folli, gli sconfitti.
La borghesia cantata da Claudio Lolli fa sempre più rabbia, schifo e malinconia, indignandosi a comando, interessata solo alle frivolezze e alle piume più leggere dell’infosfera rimanendo indifferente ed ostile a quel che veramente pesa sul mondo. E così per i figli di papà e mamma, i grandi ricchi e le vite più effimere e i sollazzi più incoscienti barricate mediatiche e non solo, per chi è senza casa, per chi non arriva alla metà del mese, per chi è prigioniera della schiavitù sessuale, per chi è oppresso dalle mafie, per chi è vittima di un sistema previdenziale pubblico che in questi mesi ha abbandonato milioni di persone alla disperazione indifferenza, stigma sociale, silenzi che sanno di omertà.
E come dimenticare che in questi mesi appena qualcuno ha sussurrato che bisognava sostenere economicamente i più poveri e non tutti, che c’erano imprese che si stavano imponendo in nome del loro profitto sulla pelle dei lavoratori e del Paese tutto e che nel Nord stava avvenendo un disastro con precise colpe e responsabilità è partito il fuoco della propaganda e accuse di sentimenti anti-settentrionali, di minorati per ragioni geografiche e odio contro gli imprenditori?
E così è diventato esperto di economia e finanza, guru di come l’Italia dovrebbe uscire dall’emergenza e ripartire uno che si è arricchito con il lusso e gli stravizi di chi vive dal lato della barricata più opprimente, di chi ogni giorno gonfia portafogli sfruttando le lacrime e il sudore di milioni di persone, di chi ostenta la propria ricchezza personale disprezzando, odiando e calpestando gli impoveriti, gli emarginati, coloro che subiscono ogni giorno gli agguati della vita. Che sia un personaggio arricchitosi anche con bische clandestine, frodi, truffe ed evasioni fiscali è considerato più di un merito.
Il mafioso e il corrotto potenti sono «utili», si piega la testa e si chiede favori, lavoro e posizione sociale. Davanti al peggior marcio si tace perché «può sempre diventare utile» e «domani potrebbe servire a me», s’impone lo stile di vita del tacere ed adattarsi a tutto nel dominio dell’arroganza, della tracotanza, della menzogna. Per poi lasciarsi comandare contro i più deboli, migranti (tacendo però sulle vere mafie, sui farabutti che sfruttano e su quali politiche li favoriscono) e cittadini, senza tetto e donne schiavizzate sulle strade e violentate, lavoratori che denunciano ingiustizie e condizioni di lavoro disumane e brutali, chi non accetta la spintarella o la bustarella, chi crede ancora che esistano diritti e non privilegi del Potere.
Lo stiamo vedendo anche in queste settimane in cui è stata offesa la memoria di Falcone e Borsellino da chi ha complicità e collaborazioni con mafiosi e loro sodali. Personaggi purtroppo decisivi per le sorti politiche di questa nave dai cocchieri sporchi nella gran tempesta squallida senza dignità che, ancora una volta, vigliacchi scatenano nuove guerre contro i più deboli e fragili e tacciono sullo scioglimento del comune di Foggia e la realtà delle mafie pugliesi.
Non è (solo) razzismo, è vigliaccheria, è incapacità di non strisciare, è brutalità del branco, di farsi comandare, di piegarsi al più forte, di chi considera gli altri solo utili o ostacolo per la propria squallida consorteria, è l’ipocrisia di coloro che guardano per terra da maiali e odiano chi vuol volare.
È sempre e soltanto, ogni crisi e ogni anno di più, la vecchia piccola borghesia piccina che fa sempre più rabbia e schifo «soddisfatta dei danni altrui» e che si tiene stretta i denari, «così grigia e così per bene» che si porta a spasso le proprie catene, che gode quando son trattati da criminali i più deboli, ama «ordine e disciplina» tranne quando vengono indagati e repressi i colletti bianchi e i potenti, gli oppressori e gli sfruttatori, gli schiavisti (veri) e i corrotti miliardari, che mente con meschinità e ha «fatto dell’ipocrisia» la sua «formula di poesia», «sempre fissa lì a scrutare un orizzonte che si ferma al tetto, sempre pronta a pestar le mani a chi arranca dentro a una fossa e sempre pronta a leccar le ossa al più ricco ed ai suoi cani».
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