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Può l’antimafia diventare un affare economico?

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Non condivido le critiche e il commento che Pino Maniaci ha fatto nel presentare il mio servizio in onda il 9 marzo 2016.

Io ho posto un problema e cercato qualche risposta, lui invece è arrivato subito alla critica col coltello. Non mi sognerei, neanche a livello di sospetto, di mettere in discussione il ruolo che Libera ha avuto in tutti questi anni nell’organizzazione, nella formazione e nella rivitalizzazione del movimento antimafia, spesso ridotto a cerimonie istituzionali e formali. Credo comunque che ciò valga anche per Pino e che l’avanzare critiche, da parte sua, non è per demolire, ma per evitare storture o cercare di risolverle, nel momento che l’obiettivo comune è la lotta alla mafia.

Bisogna considerare che Telejato non ha mai chiesto né ricevuto né accettato mai una lira, o meglio un euro, dalle migliaia di giovani che sono venuti a visitarla e con cui ci siamo intrattenuti parlando loro delle nostre esperienze, con vere e proprie lezioni di legalità. Si potrebbe obiettare che molti di loro hanno prestato gratuitamente la loro opera alla televisione, ma il volontariato ha già in sé la sua risposta e include l’acquisizione di esperienze socialmente utili.

Poiché il servizio è stato scritto di getto, l’ho rivisto e vi ho operato qualche correzione e qualche integrazione.


La trasmissione andata in onda Domenica in tarda serata su RAI Uno sui beni confiscati alla mafia, che sono da definire “cosa nostra” ha lasciato qualche perplessità. L’impostazione si ispirava ai filmati con cui l’associazione Libera presenta le sue attività all’esterno e le scene, gli ambienti e gli argomenti parlavano di  beni affidati a Libera e resi produttivi grazie all’impegno di alcuni coraggiosi che sfidano i mafiosi con il loro coraggio e la loro voglia di realizzare qualcosa di diverso rispetto a quanto precedentemente esistente. Giusto. È sembrata un’apologia di Libera, quasi che non esistano altre realtà che compiono lo stesso tipo di scelte e di lavoro. Ma questo ci può stare, visto che quest’anno si celebra il ventennale dell’approvazione della legge 109/96, voluta fortemente da Libera, grazie alla raccolta di un milione di firme, che ha come linea guida quella della  pubblica utilità, ovvero la destinazione per fini sociali, del bene confiscato. Spesso, al momento dell’assegnazione si usa quello che ormai è diventato un luogo comune, ovvero che il bene è “restituito alla comunità”, affermazione impropria in quanto si restituisce qualcosa che prima apparteneva, ma, a meno di non teorizzare, come Proudhon che “la proprietà è un furto”, è difficile dimostrare l’appartenenza alla comunità di un bene di proprietà di un mafioso, magari da lui acquistato regolarmente.

Il bene non è restituito, ma affidato alla comunità: per essere più precisi, affidato ad alcuni settori della comunità che lo rendono proprio. Si è parlato di circa 1500 beni confiscati e assegnati e di altri 5000 sequestrati, dei quali si prevede che almeno 4000 saranno confiscati e, se ci sarà un minimo di volontà politica, assegnati. In genere la prassi è quella, una volta ultimato l’iter della confisca, dell’assegnazione ai Comuni, i quali poi ne decidono la destinazione e l’assegnazione in base alle necessità, all’opportunità politica, ai finanziamenti ottenuti per la ristrutturazione. L’assegnazione spesso è decisa tramite bando pubblico, e qui cominciano le prime perplessità: esistono bandi studiati su misura per destinare l’assegnazione a una determinata associazione. In un paese siciliano si è verificato il caso di un bando che prevedeva che l’associazione richiedente avesse avuto altre esperienze di gestione di un bene mafioso assegnato e di queste ce n’era una sola. L’altra osservazione è che, se si presenta Libera non c’è più storia, il bene andrà assegnato ad essa, sia per il prestigio, sia per l’esperienza mostrata già nel corso della sua storia. Il servizio televisivo non ha chiarito quanti beni sono stati assegnati a Libera, rispetto ad altre associazioni. Naturalmente, in tutto questo Libera ha bisogno di mantenere un filo diretto con l’istituzione e con chi la rappresenta, per cui, in molte circostanze si ritrova davanti, a parlare insieme, con rappresentanti istituzionali che creano imbarazzo: in tal senso certe volte non ci si può nascondere dietro la giustificazione che conta l’istituzione e non chi la rappresenta.

Qualche anno fa, a Napoli, nell’annuale manifestazione del 21 marzo, l’intervento della vedova Fortugno, implicata in una serie di vicende cui non sono estranei i contatti con frange della criminalità calabrese, è sembrato a molti poco opportuno. Ma altrettanto inopportuna è sembrata a molti, che nel fare antimafia ci mettono la faccia e spesso anche la pelle, la proposta fatta dal deputato Davide Mattiello e approvata alla Camera, di “pescare” gli amministratori giudiziari, a parte che in Libera, in agenzie come Invitalia, ancora oggi sotto la sfera degli affaristi di Mediaset. Anni fa capitò che, da uno degli assessorati regionali siciliani gestito da un esponente cuffariano, venisse offerta ai compagni di Peppino Impastato una somma di circa 40 mila euro per organizzare le iniziative del 9 maggio: dopo un lungo dibattito interno l’Associazione rifiutò. Ma non c’è da scandalizzarsi se alcune associazioni presentano progetti e richieste di finanziamenti: in fondo, se i fondi arrivano, sono sempre soldi della comunità.

Il problema sta nel volere o meno superare l’ostacolo ideologico che l’istituzione è corrotta, che la mafia è una componente dello stato e che pertanto i soldi che arrivano con la benedizione istituzionale sono soldi sporchi e di cui, comunque, bisogna rendere conto. L’altro problema è: può l’antimafia diventare un affare economico? Si può attivare, in nome dell’antimafia un giro di soldi e di lavoro che, per alcuni aspetti, riproduce le regole e i metodi del mercato capitalistico? La risposta è sì, cioè è giustificato creare un’alternativa alla gestione mafiosa del mondo del lavoro, nel rispetto delle regole della legalità, della prevenzione infortunistica, di un’attenta valutazione tra quello che è la prestazione di lavoro contrattualmente retribuita e lo sfruttamento della persona costretto a mettere in vendita ore della sua vita. Le cooperative corleonesi, dopo i primi anni di difficoltà e d’isolamento, hanno visto aumentare notevolmente l’offerta di personale che chiede lavoro, proprio perché sono in grado di offrire precise garanzie. È stato osservato che i prodotti col marchio di Libera hanno un costo più alto di prodotti simili, ma anche qui va considerato che la catena di distribuzione non è quella della grande produzione e che chi acquista fa una scelta che non è quella del semplice consumatore. Qualcuno ha insinuato che quanto messo in commercio col marchio di Libera è maggiore di quanto realmente prodotto: difficile dare una risposta, dal momento che non si dispone di cifre ufficiali. È vero che Libera è ormai diventata qualcosa di grosso: il suo ultimo bilancio si aggira sui 6 milioni di euro, così com’è vero che la gestione di più di un migliaio di associazioni che aderiscono a Libera non è sempre facile e può dar luogo a qualche “svista” preoccupante. Ci sono centinaia di persone che lavorano dentro Libera, che ne costituiscono la struttura e che hanno un costo.

Rimangono alcuni problemi collaterali: Può chi riceve un bene confiscato, per non parlare degli amministratori giudiziari dei beni sequestrati, ritenersene padrone e chiudere la porta alla comunità che invece ne dovrebbe essere la vera destinataria? Può chi organizza “campi di lavoro” utilizzare forza lavoro di giovani disposti a prestare un lavoro non retribuito o pagato solo con vitto e alloggio? In questo caso la risposta è semplice: si tratta di ragazzi che hanno scelto liberamente di dare una mano e di fare esperienze che comunque arricchiscono la personalità. Può Libera richiedere alle associazioni un contributo per ogni persona che viene inviata o avviata ai cosiddetti “campi di lavoro” estivi? Possono essere a pagamento alcuni servizi, come quello di guida per i visitatori, specie quando sono ragazzi provenienti da scuole? Sembra giusto che Libera abbia il diritto di difendersi da queste accuse, spesso pretestuose, ma che non può usare l’argomento “chi attacca Libera attacca l’antimafia e quindi è mafioso o fa il gioco della mafia”. Questo è il vecchio argomento dell’attacco al sistema, per destabilizzarlo, già sostenuto dalla Saguto nei confronti di chi l’attaccava.

I problemi ci sono, se ultimamente il figlio di Pio La Torre o il giudice Maresca li hanno sollevati  o se interi gruppi di esponenti di Libera sono stati azzerati, com’è successo a Palermo anni fa, quando ne fece le spese la figlia di Rita Borsellino. La cosa più semplice è parlarne, affrontarli, tentare di superarli con il contributo di quella poca gente onesta che vorrebbe fare qualcosa, ma che spesso è ignorata o tagliata fuori perché non ortodossamente schierata con la linea ufficiale o perché solo la tessera garantisce l’appartenenza.

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Salvo Vitale

Salvo Vitale è stato un compagno di lotte di Peppino Impastato, con il quale ha condiviso un percorso politico e di impegno sociale che ha portato entrambi ad opporsi a Cosa Nostra, nella Cinisi governata da Tano Badalamenti, il boss legato alla Cupola guidata negli anni Settanta da Stefano Bontate.

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