E’ in corso a Palermo il cosiddetto “Festival del lavoro”, dal 25 al 27 giugno, con una grande accozzaglia di proposte, con interventi di tutti i tipi di personaggi: pare che ci sia anche il supergettonato Salvini e il ministro della Pubblica Istruzione Giannini, a meno che, per eventuali contestazioni, non decida di cedere il posto alla faccia di bronzo di Faraone che avrebbe potuto essere sottosegretario dell’agricoltura, visto le sue precedenti esperienze alla cooperativa Placido Rizzotto di Corleone, ma che invece è stato proiettato in una dimensione per lui sconosciuta, tanto quanto lo è per la Giannini quella dell’istruzione scolastica.
Perché con la scuola non si scherza, ma Renzi non vuol sentire niente e ha deciso di giocarsi la sua sopravvivenza politica con le sue strampalate proposte di autoritarismo degne di passati regimi. Ma lasciamo stare il lavoro degli immaginari 120.000 docenti, che non saranno mai nominati, che continueranno a girovagare tra le graduatorie delle varie province e scuole, ma che servono per ricattare le opposizioni, e andiamo ad altri lavori che, si continua a dire non ci sono, di fronte all’esserci del “capitale umano” che resta inutilizzato o se ne va all’estero. E invece il lavoro c’è e non c’è la volontà politica di portarlo avanti.Il lavoro è attorno a noi, in quello che da secoli è stato il nostro autentico patrimonio economico che ci ha consentito di vivere e affrontare il tempo, ovvero è nella terra.
La terra intorno a noi, incolta, abbandonata, piena di erbacce pronte a bruciare e a diffondere le fiamme in ciò che resta di verde attorno. La terra, arida, dura, ma sempre pronta ad aprirsi al seme, alla piantina, alla zappa, al trattore, sempre pronta a produrre, vuoi biologicamente, vuoi con tutti i veleni che gli uomini hanno inventato per distruggere gli insetti che divorano il raccolto. La terra non delude, chiede di essere lavorata, trattata, rivoltata, irrigata. E per far ciò ci vogliono mezzi moderni, ma soprattutto ci vuole, cosa di cui ormai tutti i governi regionali e nazionali si sono dimenticati, una politica agricola. Ci vuole mettere i lavoratori della terra in grado di potere acquistare i mezzi di lavoro con crediti agevolati. Ci vuole una riduzione sostanziosa del prezzo del carburante delle macchine agricole, ci vuole, per tutelare i nostri lavoratori, una politica di promozione e protezione dei prodotti locali, rispetto alle porcherie che ci arrivano da tutto il mondo per quattro soldi, mettendo in crisi il valore economico di ciò che produciamo. Certo, un litro d’olio tunisino o spagnolo costa molto meno dell’olio italiano, ma di cosa si tratta? E poi, se è vero che la riduzione del costo del lavoro e di tutto ciò che serve alla produzione rende poco concorrenziali i nostri prodotti, perché non chiedere con forza politiche protettive, così come fanno francesi e tedeschi, imponendoci quote di sbarramento sul latte e su altri prodotti? Si potrebbe continuare a lungo: se con l’unità d’Italia la manovalanza impiegata in agricoltura copriva l’85% dell’economia, oggi i lavoratori in agricoltura sono meno dell’8%. Non c’è più nemmeno una politica di distribuzione delle acque e l’acqua diventa un prodotto da acquistare a caro prezzo presso privati o agenzie falsamente pubbliche, concepite per spremere soldi e alimentare la nullafacenza. E intanto il deserto avanza, mentre si preferisce acquistare pomodoro cinese e vino americano, rispetto a quello che avremmo potuto ma non abbiamo saputo produrre. Anche i grandi vigneti che coprivano gran parte del territorio agricolo nazionale, sono abbandonati, l’uva è pagata a pochi centesimi il chilo e solo pochi vitigni selezionati riescono a sopravvivere. Quindi è ora di smettere di piangersi addosso con la crisi e il lavoro che non c’è. La terra è sempre lì, il lavoro c’è, ma non si vuole portare avanti, nemmeno con una riforma agraria che apra a gruppi di lavoratori che lo vogliano la possibilità di disporre delle terre incolte o di poterle riscattare con il loro lavoro. Se poi vogliamo parlare di lavoro nei beni confiscati, va benissimo, ma anche lì non si può inventare ciò che serve a lavorare né sperare che dal nord arrivi il contributo o il mezzo per cominciare. Insomma sono le politiche agricole che mancano manca la protezione e l’assistenza nei confronti degli eventi naturali dannosi, manca una politica di sgravi fiscali per chi è assunto, dal momento che “mettere in regola” significa non poter sostenere il costo dei contributi, che grava poi sul costo del prodotto. Conclusione: è lo stato che non c’è, non il lavoro.
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