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Non prevenzione, ma condanna senza prove

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Ancora una volta ci troviamo a fare, secondo qualche provocatore, la parte di amici dei mafiosi o di essere forzitalioti, anche se da queste persone e da questo partito ci divide un abisso. Ma questi sono tempi in cui si può sostenere che Cristo è amico di Satana, quindi è necessaria qualche puntualizzazione. Tanto per chiarire prima di cominciare, noi siamo convinti assertori dei sequestri e delle confische di beni ai mafiosi. Si badi, ai mafiosi, ovvero a quelli giudicati tali da una sentenza, non ai presunti mafiosi. Qualcuno ha abbozzato l’ipotesi che, in caso di modifiche alla legge, a Dell’Utri possano essere restituiti i beni che ancora non gli sono stati nemmeno sequestrati: ebbene, Dell’Utri è riconosciuto mafioso o  contiguo da una sentenza e quindi gli va sequestrato tutto senza discussione. Stessa cosa dicasi o dovrebbe dirsi per Cuffaro o per D’Alì. Pure le mutande. Se non succede vuol dire che le misure di prevenzione e le norme sui sequestri non sono attuate correttamente e che chi tace per queste “eccezioni” e urla  affinché il fuoco sacro dell’antimafia colpisca anche i più piccoli imprenditori,  non ha studiato la legge e tutto ciò che ha provocato, non solo per il caso della Saguto e dei suoi complici di cui aspettiamo la sentenza definitiva (attesa per il 19 ottobre).

Il problema della prevenzione riguarda il presunto mafioso, (purché non si parli di Berlusconi), al quale si sequestra tutto con disinvoltura, salvo poi arrivare al punto in cui si restituisce tutto perché non c’erano sufficienti indizi. E il tutto restituito è il niente rimasto. E allora la domanda è questa: sulla base di cosa si formula e si getta addosso a un comune cittadino l’accusa di collusione o contiguità con la mafia? E qui entra in ballo la grande facoltà di estensione del giudizio affidata al giudice, il quale può trovare che c’è differenza tra lo standard di vita e gli introiti nella cassa familiare. Si potrebbe arrivare, come si è già arrivati, ad accertare che queste differenze sono minime e che “il preposto” si consente l’uso di una macchina, il posto alla concessione balneare e la pizza con gli amici il sabato sera, oppure che ha comprato una casa, magari poi si scopre grazie a un prestito o grazie ai soldi dell’eredità della moglie. Intanto sequestriamo, poi si vede, prevenire è meglio che curare. Qui sta quello che qualsiasi persona rispettoso delle norme del diritto universale non può che rifiutare perché ha ben poco a che fare con l’amministrazione della giustizia, anche se colui che è incaricato di occuparsene è chiamato, in maniera beffarda, amministratore giudiziario.  In una terra come la Sicilia si fa presto a trovare un motivo con cui giustificare l’accusa di contiguità mafiosa: basta il possesso non interamente dimostrato di un bene, basta il saluto o il caffè condiviso con l’amico del boss, che magari è un tuo amico d’infanzia, basta un incauto acquisto con il prezzo ritoccato in fattura, la vendita di un bene a persona sospetta, la parentela ereditata o associata alla parentela della moglie, un bene acquistato sulla parola, e quindi di sospetta provenienza, ecc, si possono trovare mille pretesti per inchiodare uno con l’infamante accusa di essere “amico degli amici” e quindi esporlo alla gogna del sequestro. Difficile capire la persistenza di questo residuo medievale in un sistema legislativo che ha in sé tutti gli strumenti per esercitare il controllo penale sulle attività del cittadino sottoposto a indagine.

È qua che bisogna lavorare: lasciamo stare in pace Pio La Torre, Rosario Di Salvo, Carlo Alberto Dalla Chiesa, la moglie, l’agente di scorta e tutte le vittime falciate dalla violenza mafiosa, con la demagogia che caratterizza chi le tira in ballo. Non c’entrano niente o quasi niente con questa legge, la cui ultima versione porta la firma di Salvini. Smettiamola di usare il sangue delle vittime di mafia per giustificare personali posizioni sulla validità di una legge. Il problema è sempre lì: quali parametri occorrono per definire una persona collusa e quindi sottoporla alle misure di prevenzione? Basta la dichiarazione di un pentito, che magari riferisce il suo “sentito dire”?.

Una volta arrivati al punto la risposta è chiara e lampante: solo una sentenza penale può dare la “patente” di mafioso e quindi lasciare via libera al sequestro dei suoi beni. Non si scappa: non possono esistere due giustizie, spesso contrastanti tra loro al punto che se uno è prosciolto da ogni accusa, resta attivo il sequestro dei suoi beni. Anzi direi di più, che questo potrebbe avvenire sin dalla prima sentenza di condanna dell’imputato, in attesa di successivi sviluppi penali. La legge è una sola. Non possono esserci due leggi, quella che assolve e quella che condanna l’assolto. È la chiave elementare di qualsiasi diritto, è quello che l’Europa continua a chiederci dalla sentenza Tommasi in poi. Per favore, adesso finiamola con il dire che i sequestri saranno poi più difficili, che la mafia ha vinto, che Totò Riina ha realizzato i suoi obiettivi e altre stupidaggini. Non c’è bisogno di essere esperti di diritto, per sostenere che il diritto si fonda sul rispetto di una persona, sino a quando non si provi che questo rispetto è mal riposto. La legge sulle misure di prevenzione sostituisce la presunzione di innocenza, alla quale ha diritto qualsiasi indiziato, con la presunzione di colpevolezza. Spiace profondamente che tutta la sinistra ha abbandonato completamente queste doverose modifiche di una legge che interessa non solo sequestri e confische, ma anche i reati di corruzione e che pone in evidenza l’utilizzazione dei beni sequestrati, in una prospettiva di legalità. Solo Libera e poche altre associazioni hanno lavorato in questo settore. Per il resto è noto che l’86% dei beni confiscati giace nell’abbandono e non è stato neanche affidato: spesso mancano i fondi per ristrutturare, altre volte mancano gli assegnatari, altre volte le banche non sono disponibili a finanziare queste imprese, mentre lo erano senza esitazioni con le richieste  dei mafiosi. A mio parere si tratta di una delle tante occasioni mancate indicative della distanza che ormai quello che era il Partito dei Lavoratori, ha con i reali problemi del mondo del lavoro e dell’economia. Organizzare cooperative, dare loro quanto necessario per iniziare l’attività, significherebbe dare lavoro libero e stimolare la produzione. Anche qui il PD non c’è e nemmeno il sindacato. Ma c’è anche il sottile filo che lega buona parte della magistratura a certi schieramenti politici, a condizione che questi ne mantengano i privilegi. E quello del poter sequestrare qualsiasi bene è un privilegio senza confronti, una volta prerogativa solo dei re. La proposta di rivedere tutto il sistema di prevenzione è stata presa in carico da una senatrice di Forza Italia, Gabriella Giammanco, la quale ci aveva già provato due anni fa, con lo stimolo del Partito Radicale, che ha già promosso sul tema una raccolta di firme su una sua proposta di legge. E così mi ritrovo a vedere che le mie idee e le mie proposte sono sostenute da un’esponente di un partito agli antipodi delle mie scelte politiche. A mio parere per questioni di opportunismo politico si andrà avanti con la difesa a tappeto dell’attuale legislazione, schermandosi dietro il nome di Pio La Torre, perché per i magistrati è uno strumento prezioso, poiché mette nelle loro mani un immenso potere, ovvero quello di entrare nell’esproprio dei beni dei privati sorvolando tutte le garanzie costituzionali che ne regolano il possesso. È per questo che, sino ad ora, nessuno ha sollevato il parere di legittimità costituzionale della norma, perché la risposta più plausibile sarebbe la sua bocciatura. Sulla presunzione andiamoci piano: si rischia di tornare al medioevo  o all’accusa di eresia per ogni parola predicata.

Sembra del tutto sbagliato e superficiale che con le proposte avanzate dal disegno di legge presentato si vogliano rendere più difficili i sequestri e le confische: si vuole tuttalpiù sostenere che la presunzione di mafiosità non implica necessariamente l’essere mafioso e che il bene va sequestrato al mafioso doc. È scontato e indispensabile perciò servirsi come primo momento del procedimento penale, la strada maestra con cui si individua l’innocenza o la colpevolezza. Si dice che il procedimento penale è talmente lungo da non essere immediatamente punitivo: anche qua, invece di nutrire eserciti di avvocati che nell’allungamento dei tempi godono e incassano, basta accorciare, per legge, questi tempi, renderli veloci e sicuramente inferiori a un anno, prima di arrivare alla sentenza che determina l’essere mafioso o meno del processato e prima che il bene si deteriori. Nel frattempo, a partire dal primo grado di giudizio, se negativo, si potrebbe già passare al sequestro. Sulla definizione e quindi sull’attribuzione dell’accusa di mafioso i magistrati dovrebbero conoscere gli elementi e procedere. Questi sono paletti, capacità di giudizio, misure di controllo, su cui qualsiasi giudice che sa muoversi bene può trovare soluzioni utili alla comunità e non solo agli avvocati e agli amministratori giudiziari.

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Salvo Vitale

Salvo Vitale è stato un compagno di lotte di Peppino Impastato, con il quale ha condiviso un percorso politico e di impegno sociale che ha portato entrambi ad opporsi a Cosa Nostra, nella Cinisi governata da Tano Badalamenti, il boss legato alla Cupola guidata negli anni Settanta da Stefano Bontate.

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