La prima osservazione è che la trattativa c’è e c’è sempre stata, sin dai tempi in cui parecchi “picciotti”, spesso legati alle cosche mafiose che imperversavano nel meridione d’Italia, corsero ad ingrossare le fila dei garibaldini. Ma già sulla battaglia di Caltatafimi c’è stata da sempre l’ombra di una trattativa tra Garibaldi e il gemerale Landi, che avrebbe potuto sgominare facilmente i “Mille” sfardati e male armati e che invece ordinò la ritirata. Non vogliamo entrare nel contesto dei grandi agrari siciliani, al cui servizio lavorava la mafia, molti dei quali eletti o nominati in Parlamento. La vicenda di Emanuele Notarbartolo, il cui omicidio, secondo gli atti processuali, venne deciso dall’on. Palizzolo, prima condannato e poi assolto, ci riporta, dopo l’azione repressiva del prefetto Mori, alle successive intese tra i boss mafiosi e quelli fascisti, nel senso che, come è sempre successo, la mafia non esitò a schierarsi con chi deteneva il potere. Lo sbarco degli americani in Sicilia e l’azione di boss come Lucky Luciano, Vito Genovese, Calogero Vizzini, Genco Russo, sono momenti di una complessiva strategia nella quale la mafia non ha mai esitato a dare il suo appoggio o a essere sostenuta da chi decideva l’azione di governo o di amministrazione. Per non parlare degli accordi tra il bandito Salvatore Giuliano e vari rappresentanti dello stato o di quelli tra l’ispettore Verdiani e il bandito Salvatore Ferreri, detto Fra Diavolo, o di quelli con Pisciotta, con Minasola e altri briganti, che condussero all’eliminazione di Giuliano, diventato ormai scomodo. Si potrebbe continuare all’infinito nella lunga scia di politici sui quali c’è stata una perfetta convergenza dei voti mafiosi e uno scambio reciproco di favori: i nomi più chioaccherati sono quelli riportati da tutte le cronache, da Calogero Volpe, a Calogero Mannino, a Salvo Lima, ai cugini Salvo di Salemi, ad Andreotti, a Berlusconi, a Dell’Utri, ma si tratta solo di alcuni di un complesso e sotterraneo sistema di potere che ha strangolato la Sicilia, rendendola una terra di consenso elettorale in cambio di briciole o di grossi interessi equamente divisi tra gli industriali del nord e gli imprenditori del meridione. Quindi, di che cosa parliamo? Della scoperta dell’acqua calda?
Il procuratore di Palermo Francesco Messineo, interrogato alla Camera il 17 luglio 2012, ha sostenuto che la trattativa tra lo Stato e la mafia “c’è stata ed è stata reale”: «Abbiamo impiantato un procedimento, che è alla fase dell’avviso di conclusioni indagini e che verosimilmente si evolverà più avanti, basato sull’ipotesi che la trattativa ci sia stata e sia stata reale. Non mi sembra di poter assolutamente concordare con quelli che parlano di presunta trattativa, salvo poi il successivo vaglio processuale».
Per contro Il 20 ottobre 2009, l’ex colonnello dei ROS, Mario Mori, imputato per favoreggiamento aggravato di Cosa nostra, ha dichiarato al tribunale di Palermo che non ci fu nessuna trattativa tra la mafia e lo Stato, e in una intervista successiva, ha smentito di aver mai ricevuto dalle mani di Massimo Ciancimino o di altri il presunto “papello”.
Nella sentenza dei giudici di Firenze, che nel marzo 2012 ha condannato una quindicina di boss per la strage di via dei Georgofili, si legge «Una trattativa indubbiamente ci fu e venne, quantomeno inizialmente, impostata su un do ut des. L’iniziativa fu assunta da rappresentanti delle istituzioni e non dagli uomini di mafia».
La trattativa su cui si articola un processo che ormai si trascina da molti anni è relativa agli anni ’90, quelli in cui furono uccisi una serie di magistrati, da Chinnici a Falcone e Borsellino, che avevano portato avanti il maxiprocesso e messo alla sbarra buona parte dei principali esponenti delle cosche siciliane. Le richieste che Cosa nostra, attraverso il suo capo Totò Riina avrebbe avanzato allo Stato per mano di Vito Ciancimino sarebbero state riassunte in dodici punti scritti sul famoso papello:
Al primo elenco di richieste, prodotte direttamente da Cosa nostra, ne venne allegato un secondo, con modifiche alle richieste prodotte da Vito Ciancimino: il figlio Massimo Ciancimino ha consegnato ai giudici che si occupano del caso entrambi i manoscritti, ha attraversato una serie di vicende giudiziarie e nei suoi confronti c’è una richiesta di carcere per cinque anni: con ogni probabilità sarà uno dei pochi a pagare per tutti, reo di non essersi fatto i fatti suoi.
Gli attentati di via dei Georgofili, di Roma al Velabro, degli Uffizi, avrebbero fatto parte di una strategia mirante ad ottenere dallo stato una risposta positiva alle richieste del papello e la strategia sarebbe stata condotta da uomini dello stato, che poi sono rimasti al loro posto raggiungendo i massimi vertici di comando, come nel caso del generale Mori o del generale Subranni. Per gli altri, a partire dal Presidente Napolitano, dal suo corrispondente epistolare Nicolò Mancino, dal ministro Conso, che liberò dal 41 bis un centinaio di mafiosi e da tanti altri ministronzi che hanno fatto l’occhiolino ai mafiosi, per non parlare degli accordi testimoniati da Graviano con dell’Utri e Berlusconi per la nascita di un nuovo partito, Forza Italia, che con la mafia avrebbe fatto e continuato a fare affari, ci sarà una maxi assoluzione, o per non aver commesso il fatto, o per avere agito nell’esercizio delle sue funzioni, o perché il fatto non costituisce reato, o per intervenuta prescrizione. Tutto a posto, non è successo niente, anni di udienze, con il relativo apparato di giudici, avvocati, testi e imputati sono serviti solo a scrivere e a chiarire le cose, a lasciare materiale probatorio su cui i posteri potranno ancora studiare, ma non a mettere in discussione l’alta funzione dello stato e di chi lo rappresenta, perché lo Stato non sbaglia mai, e se c’è qualcuno che sbaglia è un singolo cittadino, una mela marcia che non può mettere in discussione la bontà delle istituzioni.
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