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Sentenza 50187: a un boss non si può dire che è un “pezzo di merda”. Questione di dignità

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Questione di dignità

Il boss in questione è Mariano Agate, uno dei più grandi mafiosi della provincia di Trapani: è stato capo mandamento di Mazara del Vallo ed è morto nel suo letto il tre aprile 2013 a 73 anni. Sul suo curriculum spiccano diversi ergastoli per una serie di omicidi eccellenti, come quelli del giudice Giangiacomo Ciaccio Montalto, quello di Falcone, di sua moglie e della sua scorta e quello di Mauro Rostagno. Il suo nome, a partire dagli anni 70 è ricorrente in tutte le inchieste sulla mafia trapanese. Totuccio Contorno sostiene che, sul finire degli anni ‘70 don Mariano gestiva una raffineria di eroina nei pressi di Mazara del Vallo in collegamento con il mafioso Francesco Mafara, amico del principe di Villagrazia Stefano Bontate, poi ucciso da Riina.

Lo troviamo nel 1986 nell’elenco degli iscritti alla loggia massonica segreta Iside 2 di Trapani, assieme all’altro suo amico mafioso Mariano Asaro e al deputato regionale Francesco Canino. Con l’ascesa dei “corleonesi” diventa uno dei migliori alleati di Totò Riina, diverse volte suo ospite, sino al momento del suo arresto nel 1990. Scarcerato a marzo 2013 per gravi motivi di salute, è deceduto nella sua abitazione di Mazara del Vallo il 3 aprile 2013 all’età di 73 anni. Il vescovo di Mazara del Vallo, Domenico Mogavero, gli ha negato le esequie private, e il questore quelle pubbliche. Alla sua morte Rino Giacalone, giornalista trapanese, quasi con un sollievo di sospiro, ha scritto: “È morto un pezzo di merda”. Non l’avesse mai fatto! La vedova di Agate lo ha denunciato per diffamazione, ne è seguito un processo nel quale Giacalone era stato prosciolto dal giudice di Trapani Gianluigi Visco, nel giugno 2016, poiché “il fatto non costituisce reato”, in quanto l’espressione usata “imponeva al lettore di confrontarsi con il sistema pseudo-valoriale” di Cosa Nostra “di cui era parte l’Agate, in un contesto ambientale nel quale la confusione (o apparente coincidenza) tra valori e disvalori costituisce un obiettivo preciso del sodalizio criminoso… e la frase rappresentava uno strumento retorico in grado di provocare nel lettore un senso di straniamento” per “sollecitarlo ad una nuova consapevolezza sulla necessità di sradicare ogni ambiguità nella scelta tra contrapposti (seppur artatemente confondibili) sistemi valoriali”.

Rinuncio ad entrare nei meandri epistemologici di questo linguaggio. Oggi la Corte di Cassazione ha accolto il ricorso presentato dalla Procura di Trapani e dai familiari di Agate ed ha annullato la sentenza di assoluzione invitando a rifare il processo e, predisponendo già le motivazioni per una prossima e inevitabile sentenza di condanna. Secondo la Suprema Corte il mafioso, qualsiasi mafioso, ha diritto alla “dignità” che il “nostro ordinamento riconosce a qualunque essere umano, anche a chi è appartenuto a una associazione malavitosa sanguinaria e nefasta (o addirittura la capeggia)” e non può essere paragonato alla merda, neanche a un solo “pezzo”… Nelle motivazioni si legge ancora che “il fondamento costituzionale del nostro sistema penale postula la “rieducabilità” anche del peggior criminale e, pertanto, non può tollerare, neanche come artifizio retorico, la sua reificazione”. La Cassazione non ritiene valida l’intenzione e la finalità indicata da Giacalone “di aggredire l’ambiguità del sistema di controvalori mafioso” in quanto “non idonea a giustificare la lesione di un valore fondamentale della persona, si ritiene doveroso aggiungere di qualunque persona, anche del riconosciuto autore di delitti efferati, giacché proprio il rispetto di tali diritti vale a qualificare la superiorità dell’ordinamento statale, fondato sulla centralità della protezione dell’individuo, rispetto ad organizzazioni criminali, che invece si nutrono del sostanziale disprezzo di chi non risponda alle proprie finalità, quale che sia il modo in cui esso possano autorappresentarsi per cercare di conquistare il consenso sociale”.

Siamo nei soliti meandri linguistici. La sentenza 50187 sostiene poi che la “celebre frase” di Giuseppe Impastato – “la mafia è una montagna di m….” – sottolineava “la devastante capacità” dei clan di “intaccare le strutture portanti della società civile”, ma non può essere d’aiuto perché non prendeva di mira il singolo. Giacalone tornerà sotto processo davanti alla Corte di Appello di Palermo.

Considerazioni sulla rieducazione, sulla reificazione e sulla dignità per i mafiosi:

La corte di Cassazione (scritto con la esse e non con la zeta, altrimenti si corre il rischio di essere denunziati per diffamazione), si ripete. Dopo la trovata del “diritto di morire con dignità” per “la belva umana”, così molti giornalisti hanno definito Totò Riina, senza per ciò essere stati denunciati, oggi tocca non a Mariano Agate, ma alla sua memoria, che ha diritto a dignità come qualsiasi essere umano, perché “il fondamento costituzionale del nostro sistema penale postula la ‘rieducabilità’ anche del peggior criminale e, pertanto, non può tollerare, neanche come artifizio retorico, la sua reificazione”. Ora come può essere rieducabile uno che è morto è un mistero che forse può risolvere il supremo giudice, visto che sulla terra non è possibile.

Ancor più interessante la sapienza filosofica della corte con l’uso del vocabolo tipicamente marxista di “reificazione”, ovvero un termine che deriva dal latino res (genitivo rei), cioè cosa assieme a un derivato del verbo facere, cioè fare, e quindi il “far diventare oggetto”, “rendere cosa”, ridurre ad oggetto, nella stessa misura in cui il capitalismo riduce il soggetto umano a merce. Che c’entra? Oddio, volendo cercare di capire si potrebbe dedurre che il pezzodimerda, in sigla pdm, è un oggetto, non è una persona, e quindi la reificazione sarebbe quella del trasformare, non tanto paragonare, la persona in quell’oggetto”, anche se a mio parere, nelle intenzioni di Rino Giacalone il procedimento è al contrario, cioè è il pezzodimerda che di identifica in un uomo, si umanizza e si riconosce nell’essere umano con cui dimostra affinità. Quindi niente reificazione, niente rieducazione, rimane la dignità. Ha diritto alla dignità la memoria di un pdm sulla cui fedina penale ci sono tanti delitti, tante mogli rese vedove, tanti figli resi orfani, tanti commercianti rovinati, tanti soldi rubati? Posta a qualsiasi siciliano, anche magistrato la domanda ha una risposta scontata, un no con aggiunta di altre parolacce e se qualcuno sostiene di sì certamente, dal carcere non gli mancheranno gli applausi di Leoluca Bagarella, di Totò Riina, di Graviano, di Virga e di tanti pdm che hanno scelto, diventando mafiosi, di rinunciare a quella dignità che adesso alcuni giudici gli vogliono restituire. Oddio, qua ci scappa la denuncia.

Per quanto riguarda la citazione di Peppino, i giudici sembrano dire che della mafia, come entità astratta, si può dire tutto, anche che è una montagna di merda, dei singoli mafiosi no. Forse che non sono i mafiosi a fare la mafia? Ma i mafiosi sono “uomini d’onore” e meritano dignità, forse anche profumano: di merda, ma non si può dire, si può solo sentire la puzza. E poi, per dirne una che riguarda un tizio, indiziato come si evince da due sentenze di essere stato uno degli esecutori della morte di Peppino e uscito indenne dal processo perché deceduto per mafia

E c’era don Peppino Percialino
Amico di don Tano e di Pantofo
Che annusava un po’ di cocaino

Pantofo era un deputato che non ha mai denunciato Peppino per le sue contumelie, don Peppino, pur essendo trattato da cocainomane, nemmeno, né tantomeno don Tano. Riascoltando le trasmissioni si trovano tantissime pesanti denunce offese e turpiloqui a persone ben precise che non avrebbero dovuto essere fatte perché avrebbero potuto ledere la dignità dei pdm cui si riferivano. Insomma oggi ci viene reso noto, con la “sparata” della corte, che i mafiosi non sono pdm o se lo sono non bisogna dirglielo per rispetto alla loro dignità.

Delle mie denunce per diffamazione parlerò in altra occasione. Compresa l’ultima da parte di un mafioso al quale sono stati confiscati tutti i beni e che mi ha denunciato per avere scritto che era un mafioso. Caro Rino, a Telejato, dove ancora trasmetto, definiamo pdm i mafiosi giornalmente e siamo pronti a dirti di resistere, di rivendicare il diritto di chiamare i mafiosi pdm e uomini “senza dignità”, ma credimi, certe volte è troppo forte la tentazione di metterci il bavaglio e cambiare mestiere. Pronto a testimoniare in tuo favore quando vuoi. E smetto, perché sono incazzato, potrei aprire il rubinetto e beccarmi qualche denuncia da qualche pdm o da qualche magistrato.

 

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Salvo Vitale

Salvo Vitale è stato un compagno di lotte di Peppino Impastato, con il quale ha condiviso un percorso politico e di impegno sociale che ha portato entrambi ad opporsi a Cosa Nostra, nella Cinisi governata da Tano Badalamenti, il boss legato alla Cupola guidata negli anni Settanta da Stefano Bontate.

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