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Riina era ancora il capo o non lo era più?

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Il successore, il padrino autorevole, in latitanza c’è da parecchio tempo, è il capo assoluto della provincia di Trapani, si chiama Matteo Messina Denaro, e se è vero che è stato uno dei protagonisti della stagione delle stragi, egli può dire la sua parola e può dare dimostrazione della sua potenza anche a Palermo e dintorni.

C’è un’ipotesi diversa, rispetto alle teorie, alle analisi di mafiologi, rispetto ai rapporti delle forze dell’ordine e alle ricostruzioni dei magistrati, universalmente accettate, secondo cui Totò Riina era ed è rimasto il capo della “cupola”, o, se si preferisce, della Commissione (provinciale o regionale è poi da discutere), sino al momento della sua morte. Si sostiene che la Commissione non si è più riunita dal giorno del suo arresto e che pertanto, in mancanza di un suo sostituto, egli sia rimasto il capo, o per un senso di rispetto riconosciutogli da tutti i malandrini che prima ruotavano attorno a lui, o perché nessuno, dopo di lui è stato in grado di ricoprire quel ruolo. Non ci sarebbe stata una “vacatio imperii”, ma una prosecuzione del ruolo di capo, anche dall’interno delle carceri in cui è stato rinchiuso sotto il regime del 41 bis. Conseguentemente, dopo la sua morte si aprirebbe una sorta di corsa alla successione, con prevedibili rapporti di forza forieri di nuovi scontri e di nuove stagioni di violenza. Chi sostiene che egli sia rimasto il capo sembra rifarsi alla teoria secondo cui il monarca in esilio continua a rimanere tale sino alla sua morte, lasciando la corona al suo successore, ma Riina non era un monarca e, in ogni caso, il monarca cacciato non è più tale, se non per i nostalgici.

Per contro si può sostenere che la carriera di Totò Riina e il suo ruolo di capo sono finiti il giorno del suo arresto. I suoi 25 anni di prigione lo hanno tagliato fuori dallo spietato controllo del territorio e degli affari che egli aveva esercitato nel periodo della sua latitanza, durata lo stesso periodo, altri 25 anni. Il suo ruolo ha avuto una naturale prosecuzione con l’altro personaggio, altrettanto autorevole, all’interno degli equilibri mafiosi, Bernardo Provenzano, sino al giorno del suo arresto, il 14 aprile 2006. Provenzano ha interamente rivisto la gestione dell’organizzazione, chiudendo con la stagione delle stragi e ritornando al vecchio sistema della sommersione e alla ricostituzione degli equilibri sociali e politici tipici e storici di Cosa nostra. Se  si vuole seguire la teoria che il capo resta tale sino alla sua morte, dovremmo aspettare il 13 luglio 2016, giorno in cui u zzu Binnu muore, senza tutta l’assistenza data a Riina: in quel momento u zzu Totò, sopravvissuto, sarebbe tornato ad essere capo sino alla sua morte. Altrimenti bisogna ignorare il ruolo di capo di Provenzano e ritenerlo solo un sottoposto, un reggente facente funzione. Ma, al di là di queste bizzarrie rimane una questione di fondo: può, avrebbe potuto, un personaggio come Riina, certamente sorvegliato a vista e sottoposto a limitazioni di libertà rigorosissime, continuare ad essere capo? Si dovrebbe presumere che avrebbe trovato un modo o un altro di comunicare con l’esterno per far pervenire i suoi messaggi e le sue disposizioni. Le intercettazioni, le minacce, i colloqui con altri carcerati, di cui abbiamo avuto notizia, appartengono alle dinamiche tipiche di chi sta in prigione e sa che per lui non c’è più alcuna speranza.

Se, dopo il suo arresto non c’è stato più nessun capo, (ma c’è stato Provenzano), vuol dire che Cosa nostra, come all’epoca della prima Cupola degli anni ’60, poi sciolta e ricomposta nel ‘70, ha scelto nuove strategie, ha preferito, visto il pericolo del pentitismo, evitare la centralizzazione del potere e l’esposizione di alcuni personaggi, per organizzarsi, sul modello della ‘ndrangheta, in gruppi di controllo di singole porzioni del territorio, in gran parte legati da vincoli familiari e assistiti da professionisti che sanno come gestire e amministrare gli enormi flussi di denaro di cui dispone. Anche sulle ipotesi di successione, sui nomi che si citano su alcuni quotidiani, non mancano le perplessità. Il successore, il padrino autorevole, in latitanza c’è da parecchio tempo, è il capo assoluto della provincia di Trapani, si chiama Matteo Messina Denaro, e se è vero che è stato uno dei protagonisti della stagione delle stragi, egli può dire la sua parola e può dare dimostrazione della sua potenza anche a Palermo e dintorni. Su questa persistenza di “macchie liberate” e in questo apparente status di anarchia, si possono poi fare tutte le riflessioni possibili, da quella di una crisi complessiva dell’organizzazione criminale, a quella di un suo ruolo subalterno, rispetto al ruolo diventato emergente della ‘ndrangheta, a quella di una più attenta repressione da parte delle forze dello stato, a quella, più audace, di una tale “istituzionalizzazione” del fenomeno, che porta i mafiosi a scendere direttamente in campo, a candidarsi in prima persona e quindi a riproporre con più tracotanza il rapporto tra mafia e politica. Purtroppo sappiamo le cose che succedono all’interno di questo pianeta, solo dopo, spesso molto dopo, quando qualcuno è disposto a parlare, ma poco sappiamo di quello che sta succedendo.

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Salvo Vitale

Salvo Vitale è stato un compagno di lotte di Peppino Impastato, con il quale ha condiviso un percorso politico e di impegno sociale che ha portato entrambi ad opporsi a Cosa Nostra, nella Cinisi governata da Tano Badalamenti, il boss legato alla Cupola guidata negli anni Settanta da Stefano Bontate.

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