Sino a due anni fa ci pensava Pina Maisano, sua moglie, a tenere viva la memoria di Libero Grassi. Adesso tocca a noi. Addio pizzo ha organizzato alcune iniziative in occasione della ricorrenza, ma tutto quello che si fa nel ricordo di Libero è sempre troppo poco per valutare e ricordare la grandezza di quest’uomo, il primo a sollevare il velo sul mostruoso fenomeno del pizzo, a ribellarsi ai suoi estorsori e a mandarli in galera, a difendere la sua dignità di uomo e di lavoratore nei confronti di chi chiedeva un prezzo per garantire il suo diritto al lavoro.
Era nato a Catania nel 1924, un mese dopo l’assassinio di Giacomo Matteotti e il padre, antifascista, gli aveva dato questo nome, che in genere gli anarchici amano dare ai propri figli. Quando aveva otto anni, la famiglia si era trasferita a Palermo e Libero studiò presso il Liceo Vittorio Emanuele, sino al 1942, anno in cui si trasferì a Roma iscrivendosi alla facoltà di Scienze politiche. Non amava la guerra e non aveva voglia di andare a combattere, perciò entrò in seminario, per tornare poi a Palermo, dove si iscrisse a Giurisprudenza. Era un imprenditore di razza, con il fiuto degli affari e, dopo la prima esperienza in un’azienda, fondata assieme al fratello a Gallarate (MI) tornò a Palermo, dove diede vita a un’azienda che produceva biancheria per donna e che ben presto arrivò ad occupare oltre 259 persone, la MIMA. Nel frattempo non disdegnava la sua presenza in politica, tesserandosi al Partito Repubblicano, e la sua collaborazione a vari giornali. Poca fortuna ebbe un suo tentativo di creare un’azienda che si occupava di energia solare, non era ancora il momento, mentre la sua azienda, poi diventata SIGMA, pur essendo una delle più importanti in Italia, cominciò ad avere difficoltà per il rifiuto di collaborazione da parte delle banche, a seguito della denuncia con la quale Libero mandò in prigione i suoi estorsori.
Grassi pubblicò sul Giornale di Sicilia la lettera in cui motivò il suo rifiuto a pagare i 50 milioni di lire chiesti da Cosa nostra, dicendo di avere chiesto la protezione della polizia: la sua lettera, intestata al “Caro estortore”, prosegue così:
Volevo avvertire il nostro ignoto estortore di risparmiare le telefonate dal tono minaccioso e le spese per l’acquisto di micce, bombe e proiettili, in quanto non siamo disponibili a dare contributi e ci siamo messi sotto la protezione della polizia. Ho costruito questa fabbrica con le mie mani, lavoro da una vita e non intendo chiudere… Se paghiamo i 50 milioni, torneranno poi alla carica chiedendoci altri soldi, una retta mensile, saremo destinati a chiudere bottega in poco tempo. Per questo abbiamo detto no al “Geometra Anzalone” e diremo no a tutti quelli come lui. (Libero Grassi, Giornale di Sicilia del 10-01-1991).
La SIGMA di Libero Grassi faceva pigiami, calzini, biancheria intima ed era bene avviata, ma l’assassinio del suo proprietario ne decretò una lenta agonia sino alla fine. Perché l’imbecillità dei mafiosi arriva al punto di preferire la distruzione dell’azienda che non paga, provocando automaticamente la crisi dell’economia e il rifiuto di investimenti da parte degli imprenditori vessati. Quando alcuni mesi dopo, l’11 aprile 1991, Michele Santoro lo invitò alla trasmissione Samarcanda, su Rai 3, Libero Grassi disse con fermezza: “Io non sono pazzo, non mi piace pagare, è una rinunzia alla mia di dignità di imprenditore”. Era ormai diventato un punto di riferimento, un esempio chiaro che alla mafia ci si può anche ribellare, quando alle sette di mattina del 29 agosto 1991, mentre andava a lavorare a piedi fu ucciso a colpi di pistola in via Alfieri a Palermo. Il 20 settembre di quell’anno Santoro e Maurizio Costanzo organizzarono sulle reti Rai e su quelle Mediaset una serata dedicata alla memoria di Grassi. Per il suo omicidio sono stati condannati all’ergastolo i mafiosi Salvino Madonia e Marco Favaloro.
Inevitabilmente il nome di Libero Grassi richiama tutto l’associazionismo antiracket nato negli anni successivi alla sua morte, che dovrebbe, sia pure nelle sue diversità, conservare un’identità di vedute e una strategia compatta nell’organizzazione del proprio lavoro a tutela dell’imprenditoria siciliana vessata dai suoi secolari vampiri e che invece va a ruota libera non esitando in alcune circostanze a farsi lo sgambetto o a screditare chi fa lo stesso lavoro ed è animato da eguale impegno. Inevitabilmente il discorso si sposta sul rapporto tra l’imprenditore e chi lo aiuta a portare avanti le sue scelte di denuncia davanti a chi rappresenta lo stato, ovvero il prefetto, il magistrato e il rappresentante delle forze dell’ordine. Fino a quando c’è un’interazione tra queste componenti, per i mafiosi c’è poca possibilità di farla franca, quando invece s’incrina il rapporto di fiducia i mafiosi svicolano, sanno come farla pagare a chi li ha giocati. Da parte loro i magistrati e gli agenti spesso per motivi di carriera o di visibilità, utilizzano quegli stessi elementi che gli imprenditori gli hanno messo a disposizione, relativi ai propri beni e alle proprie conoscenze per procedere contro di loro con sequestri di beni, mandando in aria il paziente e delicato lavoro delle associazioni antiracket. Nella misura in cui è successo che, in qualche caso l’imprenditore collaboratore ha fatto le sue scelte nella speranza di essere risparmiato dal sequestro dei suoi beni, è successo in molti altri casi documentati, che imprenditori mai indagati che hanno offerto ogni collaborazione alle forze dell’ordine, con l’assistenza dell’Associazione Libero Futuro, che hanno ricevuto plauso e assistenza anche economica come risarcimento, sono stati “traditi” da quello stesso stato che doveva difenderli. Ed è successo anche che tutto il lavoro di Libero Futuro è andato in fumo, in quanto l’associazione non è stata più ritenuta affidabile per decisione del prefetto di Palermo Antonella De Miro. Difficile che, dopo di ciò ci sia ancora qualche altro imprenditore disposto a collaborare. In un momento in cui la mafia dà segnali di ricompattamento e di riorganizzazione il “futuro” della già magra economia siciliana, falcidiata da confische e sequestri, si preannuncia non più “libero”, ma risucchiato nel vortice del ritorno delle estorsioni, dei ricatti e delle violenze.
Qualche anno fa, in occasione del 25 anniversario della morte, la figlia Alice, in occasione della proiezione di una fiction su suo padre, in un’intervista concessa a Famiglia Cristiana disse: “Mio padre non è stato ucciso perché non dava i soldi alla mafia ma per la sua denuncia pubblica. Si sa dalle intercettazioni che il motivo è questo e che non tutti erano d’accordo, è stata una decisione autonoma del clan Madonia. Chi comincia oggi l’attività imprenditoriale non è costretto a scendere a patti con la mafia. Nella Palermo di 25 anni fa l’80% pagava e questo non piaceva certo a tutti. C’era un accordo, pagare tutti per pagare meno e non bisognava rompere gli equilibri, mio padre li ha rotti. Anche oggi la nostra famiglia non ha voglia di protagonismo. Abbiamo detto no per tanti anni ma quando mio figlio che ha vent’anni, mi ha raccontato che i suoi amici di scuola non sapevano nulla del nonno ho capito che alcuni fatti erano diventati storia ed era giusto farli conoscere. Mi auguro che Rai e Mediaset diano questo materiale alle scuole. Dover ricordare sempre persone uccise è molto triste. Dobbiamo imparare a fare qualcosa perché questa gente per bene non muoia. La cosa fondamentale è avere appoggio e sostegno dai cittadini quando si è vivi. In un paese corrotto non funziona nulla e ci stupiamo che crollino le case con i terremoti”.
Rispetto alle altre vittime di mafia Libero Grassi non rappresenta lo stato con la toga, con la divisa, con la fascia, ma chi lavora, chi produce, chi investe per costruire per sé e per altri lavoratori e lavoratrici. Dalla sua parte non c’è il lavoro nero, come in gran parte dell’imprenditoria siciliana, ma la scelta della legalità, del pagamento delle spettanze allo stato, perché dovute, ma non alla mafia che intende offrirti a pagamento protezione da se stessa. Ogni imprenditore dovrebbe portare con sé, affiggere nel proprio esercizio commerciale un’immagine di Libero Grassi, quasi quella di un santo laico, perché è lui che ha segnato la strada e nel suo nome si deve ancora continuare a condurre la battaglia per l’emancipazione del lavoro, per la liberazione dalla schiavitù e dalla prepotenza di chi vuole alimentare la sua condizione di parassita e di succhiasangue sulla pelle di chi invece con il suo lavoro vuole far vivere ed alimentare la propria famiglia e costruire una società con precise garanzie nei rapporti economici e sociali.
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