Quante Lilian nelle nostre strade? E quante coscienze sporche rivestite?
Quante sofferenze, dolori, lacrime vengono soffocati dai più schifosi aguzzini della nostra società perbenista e ipocrita, quanti mercanti di morte quotidianamente continuano a lucrare e prosperare?
“Quanto vale a Bari la vita di una nigeriana? Quanto la vita di un adolescente italiano tossicodipendente? Quanto quella di un mendicante minacciato dai clan? Vale per quanto denaro porta nelle casse delle mafie”.
Quanto vale la vita di una nigeriana? Per lor signori sicuramente nulla quella di Lilian Solomon. Quando si parla di mafia nigeriana in Abruzzo uno snodo fondamentale sono le due operazioni “Sahel”, nel 2010 e nel 2011. La seconda scattò dopo che On the Road la conobbe. Una ragazza che rimarrà per sempre ventitreenne. Sfruttata prima sulle strade della Lombardia e poi sulla famigerata bonifica del tronto, costretta con violenza ad un aborto. Per mesi e mesi continuò ad essere preda degli schifosi appetiti dei suoi quotidiani aguzzini (quelli che vengono definiti “clienti”) nonostante soffrisse dolori lancinanti, insopportabili quotidianamente. E proprio perché troppo vittima di questi dolori, proprio perché le stavano letteralmente impedendo di vivere, troppo spaventata dal loro persistere e aumentare, decise di sfidare la paura e i suoi sfruttatori. Denunciò e si affidò a On the Road. La sua storia finì anche in un documentario Rai. Ma nessuno la ricorda più. Eppure dovremmo, ancor di più in questi giorni intrisi (a chiacchiere) di cuori e buoni sentimenti. I dolori di Lilian avevano un nome preciso: linfoma non Hodgkin. Che la uccise il 1° ottobre 2011. Il tempo passa, sulla bonifica del tronto, a Pescara, a Montesilvano, a San Salvo Marina tutto è rimasto come allora (o quasi, perché probabilmente è peggiorato). Quante Lilian ci sono ancora? Quante sofferenze, dolori, lacrime vengono soffocati dai più schifosi aguzzini della nostra società perbenista e ipocrita, quanti mercanti di morte quotidianamente continuano a lucrare e prosperare? Tra una lucina e l’altra, tra un pacco e una corsa allo shopping frenetico dell’ultimo momento, Natale dovrebbe essere – per le coscienze vere e per chi non vive queste feste solo come ipocrita ostentazione – questo.
“Esiste un livello criminale alloctono, magari in collaborazione con quello autoctono, che si sviluppa dentro un quadro morale di profonda immoralità diffusa. Ci sono tre mercati che alimentano la mafia nigeriana: la domanda di sesso, la domanda di droga, la domanda di coscienza pulita”.
I virgolettati sono due passaggi della riflessione di Leonardo Palmisano pubblicata su Il Corriere del Mezzogiorno del 14 dicembre. Una riflessione sulle mafie nigeriane e baresi, su cosa si muove nel ventre molle che le alimenta. Sono riflessioni che dovrebbero essere comuni, ma non lo sono. E la realtà reale che osserva è sempre più sottaciuta, nascosta, travisata. Silenzi che puzzano di ipocrisia e omertà. Leonardo Palmisano la osserva da Bari e dalla sua Puglia. Ma è diffusa in maniera capillare. La riflessione pubblicata dal Corriere parte da una recente maxi operazione contro la mafia nigeriana che ha coinvolto, oltre la Puglia, anche altre regioni. Tra cui l’Abruzzo, il teramano in particolare. Già coinvolti il giorno e nel luglio scorso in precedenti operazioni. Sono interrogativi che dovrebbero pesare come macigni sulle false coscienze anche qui. Dalla bonifica del tronto, da decenni teatro della più turpe schiavitù sessuale nell’assuefazione di tutti, alla vasta area metropolitana che da Pescara (dove ormai da anni è arrivato anche in pieno centro) arriva a Montesilvano e oltre, fino a San Salvo Marina. Quanto valgono le vite delle persone ridotte in schiavitù, costrette a soddisfare i turpi appetiti della “brava gente”? E quanti sono – centinaia, migliaia, forse più – i bravi borghesi che ogni sera ne approfittano, per poi magari anche tornare a casa dalla propria famiglia, buttarsi placidi su soffici poltrone con la coscienza (ma ce l’hanno veramente?) tranquilla? E quanto questo traffico, anche qui, a due passi da noi, nel cuore delle nostre città, nei nostri quartieri, nelle nostre periferie, è legato all’esplosione dell’eroina e di altre droghe? Perché tutto questo non interessa, come è possibile che chi dovrebbe porre domande, documentare, interrogare, essere cane da guardia del potere e della società, tace e gira la testa dall’altra parte? E come è possibile che nulla, o quasi, sembra smuoversi nel ventre molle delle nostre, troppo spesso rabbiose, incattivite, a branchi, società?
L’avanzare delle mafie nigeriane, come denunciano e documentano spesso Palmisano e altre (troppo poche) voci del giornalismo libero in combutta con le mafie autoctone, l’esplosione della tratta e la sua diffusione, sono tra le cartine al tornasole del marcio che ci circonda. Di una società dove l’ingiustizia e l’iniquità verso i più deboli e impoveriti, fragili, emarginati e abbandonati, avanza inesorabilmente. Iniquità che, e non è solo un coincidenza del vocabolario, fa sempre più rima con impunità. Quella per i ricchi, i potenti, i colletti bianchi, i mafiosi e i papponi di ogni risma. La Puglia e l’Abruzzo sono collegati da tanti fili rossi. Anche l’ultima grande crisi bancaria. E guarda un po’ nel momento in cui, più o meno timidamente, qualcuno chiede chiarezza, giustizia, che i colpevoli paghino, si alzano voci “garantiste”, improvvisamente le forche diventano forchette, le voci grosse diventano vocine. In Italia abbiamo un grosso, grossissimo problema. Di una iniquità e ingiustizia, sociale ed economica prima di tutto, iniqua. Prona davanti ai potenti, a cui si abbassano le tasse, si garantisce ogni impunità, con cui si tratta (leggasi ci si sdraia proni e riverenti) anche di fronte ai peggiori ricatti e abusi. E implacabile, sempre più spietata, di fronte agli impoveriti, ai senza tutela. La “crisi” economica (le cui radici non affondano certamente nel 2008 di Lehman Brothers ma, probabilmente, almeno nel finire degli Anni Novanta del Novecento) ha aumentato a dismisura questa iniquità e ingiustizia. E così le banche vengono foraggiate e tutelate, chiudendo gli occhi su ogni nefandezza, e i lavoratori vengono abbandonati. E i loro diritti, in nome della competitività, del mercato, del “progresso”, cancellati. Si massacrano le spese sociali ma guai a toccare le rendite e i patrimoni dei super-ricchi. Che, negli anni della crisi e del trionfo di questa (apparente) conflittuale globalizzazione, sono diventati più ricchi. Ma anche più tutelati e coccolati. Con leggi sempre più “garantiste”, flessibili, anche ad personam o ad aziendam. Spuntano ogni strumento per reprimere i loro abusi, o al massimo con un pannicello caldo, e legittimarli. Mentre in basso colpisce sempre più la scure, rendendo la povertà, l’emarginazione, l’essere vittime – delle guerre, della devastazione ambientale, della speculazione finanziaria e di tanto altro – una colpa.
In questo brodo di incoltura le mafie hanno compiuto salti di qualità continui. Come la stessa Procura Nazionale Antimafia (ma oltre Nello Trocchia su Tiscali Notizie, che mi son permesso in questi anni di citare innumerevoli volte) non mi sembra di averne letto approfondimenti in giro) già da anni documenta sono diventate sempre più finanziarie, deviano il solco dell’economia, egemonizzano e manovrano le istituzioni (come non ripensare alle parole di Pippo Fava da Enzo Biagi, oggi realtà conclamata davanti a tutti noi). E prosperano in ogni meandro della società, sfruttano mercati vecchi e nuovi. Dal gioco d’azzardo (che nel cuore delle istituzioni nessuno o quasi vuol imbrigliare) alle nuove frontiere delle droghe e allo sfruttamento schiavistico.
Giorni fa ho avuto la fortuna di poter essere spettatore di un intenso documentario – “Madre Nostra” – realizzato in cooperative nate su terreni confiscati alle mafie. Una di queste cooperative si chiama “Pietre di scarto”, un nome che è più di un programma. Nelle interviste un passaggio credo meriti di essere riportato e valorizzato. Riferendosi alla lotta alle mafie la persona intervistata ha parlato di liberazione, di bellezza, di cultura, di lavoro, di cose che nascono dal basso, dall’impegno culturale e sociale. Non ha fatto riferimento banalmente all’applicazione di codici dall’alto, non ha demandato ad autorità alte e altre, non ha delegato nessuno. Ha parlato in prima persona, di sé, della sua liberazione e di quella collettiva, di bellezza da coltivare e da cui lasciarsi rapire che libera dalla bruttezza, dal marcio. Come disse Paolo Borsellino parliamone della mafia, denunciamo ovunque. Ma non per lamentarci, non per sfogare frustrazioni, pavidità ed ipocrisie. Ma per costruire nuovi orizzonti, nuove liberazioni. Per spezzare le catene dell’ingiustizia e dell’iniquità sociale, dell’impunità per i potenti e delle sofferenze per gli impoveriti e gli ultimi.
Alessio Di Florio
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