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Pietro Lo Sicco, la vicenda di un imprenditore con i beni sequestrati che continuava a fare da padrone

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Pietro Lo Sicco, ovvero un imprenditore che, pur avendo i beni sequestrati continuava a far da padrone, e Luigi Turchio, un amministratore giudiziario che lo lasciava fare. Il danno che la Corte dei Conti gli richiede è di 800 mila euro.

Dagli anni ’80 in poi Pietro Lo Sicco è stato il costruttore amico di boss mafiosi di primo piano, come Giovanni Brusca e Leoluca Bagarella. Era un ex benzinaio di Palermo diventato costruttore al servizio di membri di Cosa Nostra, della famiglia di Brancaccio, condannato per concorso esterno in associazione mafiosa, per corruzione di un assessore e concorso in truffa ai danni di un Comune. E aveva un avvocato importante, Renato Schifani, almeno sino al 1996, come attesta un ricorso di Schifani in favore di Lo Sicco al Consiglio di giustizia amministrativa della Sicilia. In quell’anno l’avvocato venne eletto Senatore tra le file di Forza Italia, nel collegio siciliano di Corleone. Il primo sequestro risale proprio al 1996, allorché vennero messi in amministrazione giudiziaria a Lo Sicco beni per 200 miliardi di lire e venne arrestato per concorso in associazione mafiosa e riciclaggio. Si trattava di 166 immobili, 10 società edilizie e 14 auto, tra cui una Ferrari 348, una Porsche Carrera e due Mercedes. Nel 2005 altro sequestro giudiziario per un valore di 100 milioni di euro da parte della Guardia di Finanza. Tra l’altro sequestrati 44 appartamenti, 42 magazzini, 37 uffici. Tra questi, un’impresa edile di Modena: in totale 257 unità immobiliari su provvedimento della sezione misure di prevenzione del Tribunale di Palermo, tra appartamenti, negozi, uffici, terreni e una parte del complesso residenziale «Hotel House» di Isola delle Femmine (Palermo), oltre a nove conti correnti, un’imbarcazione da diporto e 6 auto. Sequestrate anche le quote di nove società: le imprese edili «Leoni costruzioni srl», «Cristina Immobiliare srl», «Lopedil costruzioni srl», «Modena costruzioni srl», «Frida costruzioni srl» e «Jlenia immobiliare srl», la ditta di abbigliamento «Le donne sas» e la falegnameria «Industrie lamellari srl», tutte riconducibili a Lo Sicco o a suoi familiari. Nel giugno del 2000 Lo Sicco è stato condannato a sette anni di reclusione per concorso esterno in associazione mafiosa. I beni di Lo Sicco vennero stati affidati a uno dei più “quotati” amministratori giudiziari di Palermo, Luigi Turchio, che, nei 14 anni della sua gestione ha fatto di tutto per non fare niente. Infatti, per tutto questo tempo Lo Sicco ha continuato ad incassare regolarmente l’affitto pagato dagli inquilini di diversi immobili, che un tempo gli appartenevano. La notizia era già venuta fuori nel settembre del 2016, ma da oggi la Corte dei Conti ha cominciato a prendere provvedimenti, dopo la passata segnalazione dell’agenzia dei beni confiscati. I pm della Corte dei conti contestano a Turchio un danno da 800 mila euro, se si calcola che accanto all’ammanco di 400 mila euro bisogna aggiungerne altrettanti perché, secondo i pm contabili, bisogna calcolare, ed è una novità, il danno “per disservizio”.

Non è tutto perché non si esclude che una parte di soldi siano tornati nelle tasche di Lo Sicco, ma questo è competenza accertarlo da parte della Procura della Repubblica. Finalmente. Nel 2013, a Turchio è subentrato Alessandro Scimeca, uno dei pupilli della Saguto. Per una quindicina di anni la gestione Turchio è filata liscia. Scimeca ha subito rilevato che  l’ultimo bilancio approvato risaliva al 1997 e non c’era traccia degli incassi per l’affitto di 250 immobili, dove abitavano parenti e persone senza un documento a giustificazione della loro presenza nelle case. Altri immobili erano occupati da presunti proprietari che, in realtà  avevano solo stipulato i preliminari di compravendita con le società di Lo Sicco. All’arrivo di Turchio nulla sarebbe cambiato, compresi i contratti in nero e la riscossione dei canoni di affitto da parte di terze persone. Il commercialista non è stato in grado di consegnare a Scimeca le chiavi degli immobili di cui non ci sono neppure i verbali di immissione in possesso, segno che, sostengono gli investigatori, tutto è rimato come prima. “Il dottor Turchio – si legge nella citazione firmata da Albo – è rimasto inerte rispetto al compito naturale del custode e amministratore, cioè immettersi nel possesso dei beni, preservare i frutti del bene in custodia, rendicontare la gestione, curare la contabilità”.

Fra la gestione da parte dell’imprenditore mafioso e quella dello Stato non c’è stata discontinuità. Il procuratore regionale della Corte dei Conti Giuseppe Aloisio e il vice Gianluca Albo oggi stanno passando a pettine fitto quella che è stata la cattiva gestione dei beni sequestrati, da parte degli amministratori giudiziari e li stanno chiamando a rispondere del loro operato. Sono una decina  le amministrazioni giudiziarie sulle quali oggi stanno indagando i magistrati contabili: il sospetto è che siano stati applicati favoritismi nelle nomine dei consulenti, abusi nella gestione dei capitali sottratti ai boss, disinvolte transazioni e omissioni dei doveri fondamentali e dei compiti che dovrebbero essere svolti dall’amministratore giudiziario. Siamo certi che, se oltre alle dieci amministrazioni giudiziarie si controllassero tutte le altre, con il recupero delle somme che sono state dilapidate per distruggere i beni affidati dallo stato, ci sarebbe da risistemare buona parte della Sicilia, dalle strade, all’economia, alla disoccupazione. Ma questo rimane un sogno.

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Salvo Vitale

Salvo Vitale è stato un compagno di lotte di Peppino Impastato, con il quale ha condiviso un percorso politico e di impegno sociale che ha portato entrambi ad opporsi a Cosa Nostra, nella Cinisi governata da Tano Badalamenti, il boss legato alla Cupola guidata negli anni Settanta da Stefano Bontate.

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