“Non vedo non sento non parlo”, le classiche tre scimmiette. Plastica rappresentazione del pensiero mafioso, clientelare, servile. All’epoca dei social ne gira una versione 2.0 “Non leggo non capisco commento”. Sembrano due versioni molto lontane, quasi opposte perché una non parla e l’altra commenta. Ma non è così. Sono due passaggi della stessa catena. Basta solo porgere lo sguardo dietro la scimmietta per rendersene conto. Perché la scimmietta è, in realtà, la pecora di un gregge. Anzi, in questi casi potremmo definirlo l’unico caso al mondo (mi perdoni la scienza) in cui la pecora si muove in branco. Telecomandato, ossequioso, utile idiota di un qualsiasi padrone. E padrino. La scimmietta/pecora è la manovalanza delle mafie, dei potentati dei colletti bianchi, è il palo delle zone e delle eminenze grigie, è il lecchino perfetto della borghesia corrotta e sporca, è il garante dello status quo del Paese (per dirla con l’immenso Pasolini, tanto blandito quando reietto dalle menti imbelli di questo immenso feudo in cui si sopravvive) sporco, disonesto, idiota, ignorante. Lo si è già rimarcato nelle scorse settimane: nel far emergere ed evidenziare tutto questo i social hanno un ruolo fenomenale. E, per questo, andrebbero ringraziati nei secoli. Perché basta scorrerli per distinguere il grano dalla pula, la vera schiena dritta e chi la considera solo un problema ortopedico. E per portare all’ennesima potenza scimmiette e pecorelle. Lì vedì lì ostentare selfie di uno stile borghese, egoistico e vacuo. E ogni tanto buttare, giusto per far finta di avere una coscienza, un link, una notizia, una considerazione da “indinnati”. Tutte pubblicazioni che hanno una cosa in comune: trattano questioni lontane, mischiano senza alcuna minima valutazione balle, menzogne e notizie a dir poco imprecise. Ma, appunto, soprattutto lontane. Un incidente stradale in Francia, un gattino salvato in Perù, una rapina in Giappone. Li troverete tutti. Poi arriva il giorno in cui il marcio bussa alla tua porta, esonda dalla fogna vicino casa, si palesa intorno a te il paese sporco e disonesto. E cosa fa la nostra scimmietta/pecorella per non tradire il cliché? L’idiota e l’ignorante. Tace, balbetta, inventa scuse, diventa improvvisamente garantista e buonista. O si lascia guidare dal branco, se può essere conveniente. Nel finale de “I Cento Passi” il Salvo Vitale del film (il discorso originale dopo l’assassinio di Peppino da parte del vero Salvo avvenne in circostanze e con parole diverse) urla al microfono rivolto ai suoi concittadini: “la mafia la vogliamo. Ma non perché ci fa paura: perché ci dà sicurezza, perché ci identifica, perché ci piace! Noi siamo la mafia!” Ecco, nell’Abruzzo e nell’Italia anno domini 2018 la frase è di un’attualità spaventosa. Andrebbe solo, magari, arricchita un po’. “La mafia ci piace perché ci dà sicurezza, ci coccola, ci da il lavoro, la seconda casa abusiva e ci permette tanto, tanto altro in barba ad ogni regola. Ma non ci piace più quando turba la quiete dei nostri selfie e dei nostri aperitivi e apericene, quando si fa scoprire, quando è comodo diventare scimmietta urlatrice di un branco selvaggio”.
Rissa tra africani e rom, raccontarla banalmente così la notizia di metà agosto è semplicemente comodo. Riporta ad una pura questione di ordine pubblico che assolve tutti. Ma, come dichiarò alla stampa il parroco locale, non è proprio così. Perché quell’episodio ci racconta qualcosa di molto più grave ed inquietante. E che abbiamo già ricordato nei mesi scorsi, anche citando le denunce del Sunia. C’è una zona di Pescara dove vige una sorta di “repubblica a parte”, dove la legge che domina e opprime è quella dei clan, della violenza, della prepotenza, delle gang, del crimine. E quella sera qualcuno (il parroco ironicamente disse “si vede che non si sono integrati e abituati alle nostre usanze”) non si è assuefatto, non si è omologato, non ha accettato supino. E di tutto questo la Pescara bene, a cui fa comodo semplicemente schifare i “balordi di periferia che fanno le risse”, non è estranea. Perché i flussi di droga che passano per rancitelli, via rigopiano, fontanelle e altre strade alimentano anche i consumi nei locali del centro e dell’alta borghesia. E le auto che si fermano alla pineta, o in altre zona della città e della vicina montesilvano, per far salire ragazze sfruttate dalla turpe tratta della prostituzione non sono solo di “balordi”. Ma molto spesso di persone dell’alta borghesia, ricchi annoiati con i portafogli gonfi. Alimentando il malaffare, la criminalità, anche la mafia che domina le zone della città già nominate. Zone che vivono oppressione e violenza paragonabili ad altri luoghi d’Italia come Ostia. Il Sunia nei mesi scorsi denunciò che in via Rigopiano/Passo della Portella le gang “si fanno la guerra per spartirsi il territorio”. “Bande di soggetti che girano armati di coltelli e pistole, che spacciano droga, minacciano e picchiano le donne del quartiere che osano ribellarsi. Squarciano gli pneumatici delle auto, su cui versano a sfregio barattoli di vernice colorata”. Occupano abusivamente alloggi “presi con la forza e le minacce ai residenti: se non ve ne andate, bruciamo le case. Dentro gli appartamenti vuoti, vengono lasciati a guardia i pitbull. Gli alloggi vengono poi rivenduti, da questi soggetti ai disperati, per cifre che vanno dai 600 ai 2000 euro”. I residenti, denunciano gli esponenti del Sunia, vivono “nel terrore” di “gente che si accoltella” e va “in giro armata di pistola, che controlla un giro di prostituzione e pedofilia, che si rivendono tra di loro gli appartamenti da occupare a 6-700 euro l’uno”.
Pescara, provincia nel 2017 al ventitreesimo posto nazionale per numero di reati. Anno iniziato nel capoluogo adriatico con 3 arresti nell’ambito dell’inchiesta “Bueva Ventura” partita da Reggio Calabria. Inchiesta, che ha coinvolto anche la Spagna e le province di Milano, Napoli e Bologna, che ha colpito il traffico di droga tra Bogotà e la Reggio Calabria di un cartello criminale ai cui vertici c’erano le famiglie Morabito-Bruzzaniti-Palamara e operava anche in Perù e Repubblica Dominicana. Quel “ventre oscuro” pescarese e dell’hinterland che anima la cronaca nera da decenni. E che negli ultimi anni si è inghiottito anche le vite di alcuni giovanissimi. Se per l’omicidio Neri ad oggi non abbiamo ancora “verità ufficiali”, la tragica morte per esempio di Roberto Straccia è stata ufficialmente archiviata come “non omicidio” ma le indagini hanno incrociato questo “ventre oscuro”. La trasmissione televisiva “Chi l’ha visto?” ipotizzò tre anni fa che Straccia potesse essere stato ucciso perché scambiato con il parente di un ex boss (oggi collaboratore di giustizia) di un clan calabrese, un investigatore privato incaricato dalla famiglia Straccia di indagare ipotizzò che sarebbe stato ucciso perché testimone di un traffico di droga al porto di Pescara. Quel porto che nella “Relazione sull’attività delle forze di polizia, sullo stato dell’ordine e della sicurezza pubblica e sulla criminalità organizzata” (QUI) relativa al 2015, comunicata alla Presidenza del Senato il 4 gennaio 2017, venne definito “il più importante dell’Abruzzo e per i suoi accresciuti scambi commerciali con i Paesi dei Balcani occidentali costituisce uno snodo cruciale per i traffici di sostanze stupefacenti e di esseri umani” – e sul richiamo dell’intera provincia per “sodalizi mafiosi interessati al reinvestimento di capitali illecitamente accumulati”. Tra le attività criminali vengono segnalate nel rapporto spaccio di stupefacenti, corse clandestine dei cavalli, gioco d’azzardo, truffe, estorsioni, usura, tratta di esseri umani, sfruttamento della prostituzione “anche minorenni”, sfruttamento della “manodopera clandestina”. Proventi di attività illegali, si legge ancora, “vengono reinvestiti anche nell’acquisto di esercizi commerciali ed immobili”.
Nel febbraio 2016 evidenziammo che Pescara è balzata ai vertici nazionali delle classifiche sulle estorsioni. E in questi ultimi anni di “episodi sospetti” se ne sono contati diversi. E nell’estate scorsa ci furono vari arresti. Due degli arrestati, padre e figlio Rossoni, furono vittime alla vigilia di ferragosto del 2016 di quella che fu definita “spedizione punitiva”. Le accuse che hanno portato all’arresto sono state estorsioni, spaccio di stupefacenti, furto aggravato e lesioni. Indagini partite dalla denuncia di un commerciante di Montesilvano. Interrogati dagli inquirenti gli accusati si sono difesi parlando di “crediti non restituiti” mentre merita attenzione la reazioni di alcune associazioni pescaresi di commercianti e consumatori. Secondo loro le estorsioni non sarebbero un grande problema della città, anche se hanno aggiunto che emerge in maniera minima perché “la paura a denunciare è grande”. Mentre lo è l’usura… Usura, droga, attentati incendiari contro locali della costa (indagine iniziata dall’incendio al “Florida Park”, di proprietà del figlio di un ormai ex assessore regionale) al centro dell’inchiesta conclusasi esattamente un anno fa contro il clan Formicola. Un “ventre oscuro” quello pescarese, radicato e ramificato fino a Roma e ai clan di “Mafia Capitale”, già raccontato anni fa sulla rivista Casablanca (QUI pagina 32), e (QUI pagina 35).
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