Oggi venerdì 17 novembre, il giorno dopo aver compiuto 87 anni, è morto, nel reparto detenuti dell’ospedale di Parma circondato dall’affetto della sua fedele moglie Ninetta Bagarella e dei suoi quattro figli Salvatore Riina, detto Totò u Curtu, ritenuto il capo dei capi dei capi della mafia. Non una prece.
Qualche giorno fa abbiamo appreso che il giornalista Rino Giacalone sarà sottoposto a un nuovo processo, per avere scritto, alla morte di Mariano Agate, boss di Mazara del Vallo, “È morto un PDM”. Per il giudici della Cassazione il mafioso ha una sua dignità che non può essere “offesa”. E così, anche adesso che è morto u zzu Totò non possiamo permetterci di definirlo “un pezzo di merda”, neanche da morto, per una questione di dignità, quella stessa dignità in nome della quale, secondo altri giudici, Totò Riina avrebbe dovuto essere portato a morire nella sua casa a Corleone, istanza poi respinta. Non parleremo della carriera di questo “dignitoso” boss, sulle cui spalle pesa una lunga fila di 1700 morti, vittime di quella guerra che Riina condusse contro i suoi “amici” di Cosa nostra e contro i suoi nemici rappresentanti dello stato.
Del tutto inattendibile e priva di riscontri convincenti anche l’ipotesi generalmente accettata che Riina sarebbe rimasto capo di Cosa nostra, anche dopo il suo arresto, sino alla sua morte. La carriera di Riina e la sua “carica” di capo sono finiti il giorno del suo arresto, nel 1993, assieme al suo sogno di sostituirsi allo stato e di costringerlo a trattare ricorrendo alla violenza.
Dopo di lui ci sono stati altri capi, come Bernardo Provenzano, Salvatore Lo Piccolo e attualmente Matteo Messina Denaro. Se qualcuno pensa che Cosa nostra sia morta con la morte del suo capo sbaglia tutto. I mafiosi sono vivi e vegeti, si sono ramificati ovunque, gestiscono l’economia illegale realizzando incalcolabili incassi attraverso i traffici di esseri umani, di organi di esseri umani, di prostituzione, di armi, di droghe, di reperti storici trafugati, di estorsioni, di lottizzazioni, di centri commerciali e di tutto ciò da cui si può trarre profitto andando al di là delle leggi.
Sicuramente un grosso sospiro di sollievo avranno fatto i politici e tutto quel sottobosco di burocrati, professionisti e traffichini che con la mafia ci vivono, perché u zzu Totò, da autentico boss, seguendo l’esempio di altri grandi padrini, come Badalamenti e Liggio, non si è pentito, non ha parlato e ha portato con sé segreti e accordi di cui non sapremo più nulla.
In questo giorno in cui, come al solito l’Italia si divide in falchi e colombe, in gente che è incline al perdono e in altra gente che conserva dentro di sé una “dignitosa” rabbia per le devastazioni, il dolore, la paura, lo sfacelo economico in cui è stata costretta a vivere e in cui è stato strozzato il futuro della Sicilia, ci piace immaginare che all’arrivo di questo spietato assassino in un immaginario aldilà, le sue vittime lo aspettino al varco per prenderlo a calci in culo per tutta l’eternità. Ci piace pensare che oggi, venerdì 17 novembre dell’anno 2017, se è una giornata di lutto e di disgrazia per Totò Riina e per i mascalzoni che si sono riconosciuti nelle sue mostruose bravate, per i siciliani onesti è una giornata di festa nazionale.
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