I tempi di Falcone, sostiene la giureconsulta catanese, sono cambiati: «Non può non considerarsi come siano passati oltre trent’anni senza che il legislatore abbia inteso disciplinare questa delicatissima materia». E quindi, addio concorso esterno. La dottoressa tuttavia non abolisce il reato di associazione mafiosa, che a suo tempo (come i lettori più attenti ricordano) venne ferocemente attaccato dal “giudice ammazzasentenze”, Corrado Carnevale. La mafia esiste davvero (o almeno non se ne nega l’esistenza), nella sentenza Di Stefano, e di tale concessione senz’altro Falcone, dovunque si trovi, ringrazia.
La giurisprudenza catanese non è nuova a sentenze, diciamo così, innovative. Anni fa un magistrato, per assolvere il costruttore Costanzo (non quello di ora: l’altro) da una serie indiscutibile di intrallazzi coi mafiosi, trovò che costui aveva agito “in stato di necessità”: e dunque, assolto. Catania, maestra di giure, ci tiene a conservare le tradizioni: e come Irnerio e Bartolo non disdegnarono, nello Studio medievale di Bologna, di rinnovare la tradizione imperiale dei Giustiniani e dei Gai, così la dottrina dei maestri Grassi, Russo e Di Natale rivive gloriosamente, apud Aetnam, nelle sentenze odierne. I mestieranti (vagamente sovversivi) come Carlo Alberto Dalla Chiesa o Carlo Palermo (ieri) o Giovanni Salvi (oggi) sono serviti: imparino il loro mestiere, e lascino nel loro brodo le chiacchiere dei vecchi Falcone e Borsellino. “Rumoresque senum severiorum/ omnes unius aestimemus assis”.
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Così, ecco come è stato assolto il padrone di Catania Mario Ciancio. La Procura, pensiamo, avrà qualcosa da dire. Anche noi avremo qualcosa da fare e da dire: noi, quelli al cui nome la giustizia si esercita. Noi cittadini, noi popolo.
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Ma che vergogna. Siamo solo "noi cittadini, noi popolo" che dobbiamo arrangiarci. Noi che dobbiamo far finta di nulla. Se non possiamo fidarci della magistratura, cosa ci resta?