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Cerimonie in Lombardia

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Una riunione segreta della ‘ndrangheta, tra riti, giuramenti e una vera e propria liturgia

Aprile 2014, Castello di Brianza: in un capanno del cuore della ‘Lecco bene’ si sta svolgendo un rito di affilia­zione alla ‘ndrangheta.

Capolocale, vangelisti, santi­sti, mastri di giornata, sgarristi, picciotti semplici: sono tutti lì riuniti, ciascuno col proprio titolo, per conferire all’affiliato Giovanni Buttà una ‘dote’ di prestigio. Si è distinto per particolare spregiudicatezza in ambito criminale e serietà rispetto agli altri mem­bri dell’associazione e per l’ope­raio di Calolziocorte originario di Messi­na è tem­po di promozione.

Parole, gesti, mimica facciale: come te­stimoniano le ricostruzioni degli inquiren­ti dal 1800 ad oggi queste litanie simili a filastrocche sono le stesse, tramandate di padre in figlio. Dalla Calabria agreste del XIX secolo alla cementificata Brianza fe­lix vicina di casa di Milano Expo 2015: in Lombardia la ‘ndrangheta si rigenera at­torno a una tavola imbandita con capretto recitando formule dalle radici massoni­che, figlie di una religiosità deviata.

E non bastano gli arresti ad interrompe­re la degenerata tradizione calabrese che con estrema rapidità negli ultimi trent’anni ha attecchito anche al Nord Ita­lia: come dimostra l’operazione Insubria che oggi ha portato in carcere 35 indagati e altri 3 ai domiciliari, la detenzione per gli affiliati è solo una pausa momentanea, una sorta di cassaintegrazione da ‘Ndran­gheta Spa alle spese dello Stato, periodo di sospensione dalla quotidiana attività criminale in cui si trova il tempo per rige­nerarsi.

Per uscire dal vincolo di affilia­zione si­glato in un cerimoniale vecchio due secoli ci sono solo due modi: o collaborare con lo Stato, o la morte.

“Qui davvero ogni commento appare superfluo, attesa la straordinaria chiarezza e la indiscussa univocità dei contenuti del­le intercettazioni captate nel ‘sancta sanc­torum’ di una riunione segreta di ‘ndran­gheta”, scrive il Gip di Milano Simone Luerti nell’ordinanza di custodia cautelare in riferimento alla cerimonia di conferi­mento della ‘santa’ al 52enne Govanni Buttà di Calolziocorte (LC), già condan­nato per omicidio in concorso.

La cerimonia intercettata

La cerimonia dell’aprile 2014, intercet­tata dagli inquirenti, si svolge in tre mo­menti distinti: gli atti preparatori, la fase liturgica e l’indottrinamento. Dieci minuti in tutto: dalle 11.40 alle 11.50, la celebra­zione dura il tempo di un paio di sigarette. Al capanno di Castello di Brianza, oltre al proprietario Michelangelo Panuccio e al Buttà si trovano il boss Antonino Mercuri detto ‘Pizzicaferro’, Rosario Gozzo, Anto­nio ‘Occhiazzi’ Mandaglio, Bartolomeo Mandaglio e Giovanni Marinaro. Per il conferimento della carica di ‘santa’ sono sufficienti cinque persone che abbiano nella scala gerarchica dela mafia calabre­se almeno il grado di santista, ovvero l’equivalente della ‘dote’ o ‘fiore’ che sarà attribuita all’adepto. Dote, carica o fiore sono sinonimi dello stesso termine e indi­cano il grado di affiliazione del singolo mafioso legato all’organizzazione crimi­nale attribuito in base alle capacità del soggetto.

La Santa, da cui deriva la dote di ‘santi­sta’, è una struttura interna alla ‘ndran­gheta: nata a metà anni ’70 come organiz­zazione interna all’organizzazione stessa, i suoi membri possiedono regole diverse degli ‘ndranghetisti ordinari. Il santista, ad esempio, è autorizzato ad avere contat­ti con i non affiliati, ovvero con politici, magistrati e massoni: il suo ruolo è quello di infiltrarsi capillarmente nelle logge e nei partiti, nei gruppi imprenditoriali e nelle società di pubblica amministrazione.

E’ questo il ruolo che il boss Mercuri e il Locale di Calolziocorte hanno ricono­sciuto per Giovanni Buttà.

Il “capo” e il “vangelista”

I primi ad entrare al capanno sono il boss Mercuri e Panuccio, rispettivamente ‘capo locale’ e ‘vangelista’: a loro il com­pito di predisporre il necessario per il rito.

Il cerimoniale prevede l’utilizzo di di­versi oggetti, portatori di antichi significa­ti: una pistola, un ago, un coltello e un fazzoletto.

L’intento era quello di preparare bene tut­to in anticipo: contrattempi e dimenti­canze capitano anche agli ‘ndranghetisti.

Di­fatti: la pistola è scarica, il Panuccio l’ago se l’è dimenticato a casa e pare che il col­tello non sia abbastanza affilato per una ‘pungiuta’ come tradizione comanda. Manca anche il veleno, ma la cerimonia la si farà con quello che c’è a disposizione. Ma non c’è tempo da perdere, gli affiliati hanno una certa fretta.

“Venite, dai”, esclama ai compari il boss Mercuri. Si da inizio alla fase liturgi­ca: la formazione della ‘Società’ e il con­ferimento della dote di ‘santista’.

Ad in­tervallarsi nel dialogo dal tono ie­ratico sono Mercuri e Panuccio che, fra tutti, posseggono le doti più alte.

Inizia Mercu­ri: “Buon vespero e santa sera ai santisti… ai santisti buon vespero. Giusto appunto questa santa sera… giusto appun­to questa santa sera nel silenzio … nel si­lenzio della … della no … nel sile … nel… nel silenzio della notte … e sotto la … sotto la luce delle stelle e lo splen­dore della luna … è…”.

La “santa catena”

Prosegue Panuccio: “è formata la santa catena”. Conclude Mercuri invitando il prescelto Buttà a presentarsi dinanzi a loro: “Formo la santa catena! Con parole… eh … a nome di Garibaldi, Maz­zini e La Marmora … fo … con … parole di uomo e di umiltà, formo la santa socie­tà! … eh, dunque, fatelo venire … è for­mato … fatelo venire”.

“Mettete la sicura!”, esclama l’impren­ditore edile Bartolomeo Mandaglio accer­tandosi, come richiede la tradizione, che la pistola fosse messa in sicurezza.

Una volta cominciata la cerimonia non può essere interrotta per alcun motivo, e nessuno può entrare o uscire dal luogo prescelto, salvo l’arrivo delle Forze dell’Ordine. A vigilare sulla porta d’ingresso resta il ‘trequartino’ Antonio Mandaglio detto ‘Occhiazzi’, ‘capo socie­tà’ di Calolziocorte.

“Santa sera ai santisti”

Il rito è pronunciato con estrema chia­rezza: “Buon vespero” e “Santa sera ai santisti” sono i tradizionali saluti di ‘ndrangheta che anche in questa occasio­ne i capi clan utilizzano per salutarsi. But­tà entra, e si posiziona di fronte al boss Mercuri: “A nome di Garibaldi, Mazzini e Lamarmora passo la mia prima votazione sul conto di Buttà Giovanni. Se prima lo conoscevo da camorrista di sgarro fatto e fedelizzato d’ora innanzi lo co­nosco per un camorrista per, per un santi­sta, fatto e per un camorrista appartenente e non appartenente a questo Corpo di So­cietà”.

Ci sono due strade, illustra il boss Mer­curi a quello che sta per essere battez­zato come santista: quella del bene e quel­la del male. La prima, per gli ‘ndrangheti­sti lì riuniti, è l’associazione criminale di stam­po mafioso; la seconda è quella che gli af­filiati indicano come ‘Società Crimi­nale’ ovvero lo Stato e tutti coloro che ricono­scono l’autorità nelle Forze dell’ordi­ne.

“Da ora vi giudicate da solo!”

“Oggi, da questo momento in avanti, non vi giudicano gli uomini… si ‘ncesti cosa vi giudicate da solo! Ci sono due al­ternative. Se, facendolo nella vita nostra ci sarà una trascuranza grave, non devono essere i fratelli vostri a giudicarvi.

Dovete essere voi a sapere che avete fatto la tra­scuranza. Vi giudicate voi quale strada do­vete seguire”, afferma conse­gnando a Buttà una pistola.

“Fino a ieri, fino a ieri appartenevi alla ‘Società Criminale’. Oggi state prendendo un ‘altra strada! Voi, per salvaguardare, devi essere armato (…) do­vete rinnegare tutto quello che conosceva­te fino a ieri!”.

Ed infine il giuramento:

MERCURI: dite appresso a me: “Giuro”

BUTTA’: giuro

MERCURI A.: di rinnegare

BUTTA’: di rinnegare

MERCURI A: tutto fino alla settima generazione

BUTTA’: tutto fino alla settima genera­zione

MERCURI A.: tutta la società criminale da me, fino a oggi, riconosciuta.

Tutto registrato dalla polizia

Nonostante tutte le accortezze, il rito celebrato in Lombardia è stato interamen­te registrato dalle forze dell’ordine. Ed è la prima volta che accade.

In questi ultimi anni gli ‘ndranghetisti lecchesi e coma­schi si sono ritenuti fin troppo fortunati ri­spetto ai colleghi brian­zoli o dell’hinter­land milanese: essendo stati coinvolti solo marginalmente dagli arresti del luglio 2010 di Crimine Infinito, da cui l’opera­zione di oggi prende spunto, credevano che avrebbero continuato a far­la franca anche negli anni successivi.

Da quell’operazione capitale scaturiro­no decine di blitz: in particolare Metasta­si, nell’aprile 2014, tentò di addentrarsi nelle dinamiche lecchesi, ma nessuna in­chiesta sino all’odierna ‘Insubria’ era riu­scita ad entrare così capillarmente nelle logiche delle cosche operanti in questo lembo di nord Italia confinante con la Svizzera.

Ma che la magistratura milanese da qualche anno ha gli occhi sulle famiglie di ‘ndrangheta calabrese residenti in Lom­bardia lo sanno tutti: lo dicono i gior­nali, ne parlano in televisione, si organiz­zano conferenze e corsi universitari sul tema.

Quindi per gli affiliati lecchesi e coma­schi, pur credendosi immuni, qualche ac­cortezza prima di recarsi ai summit e alle riunioni di ‘ndrine era d’obbligo: spegne­re il cellulare, assicurarsi che la pro­pria vettura non sia seguita da polizia in bor­ghese, dare poca confidenza ai non affilia­ti se non per trarne vantaggi economi­ci.

“Tenete spenti i telefonini…”

Anche in occasione della cerimonia del Buttà erano state messe in campo una se­rie di precauzioni: “Sono arrivato qua, l’ho chiuso e l’ho posato nella macchina”, “Io l’ho chiuso pure io”, “L’ho chiuso l’ho chiuso! Sai com’è! Coi tempi che corrono è meglio che il telefono sta in macchina!”, esclamano il boss Antonino Mercuri e il ‘vangelista’ Rosario Gozzo di Calolzio­corte al compare di ‘ndrina Ivano Bartolo­meo Valente quando quest’ultimo, ‘santi­sta’ di Cermenate nipote del ‘capo locale’ Giuseppe Puglisi, si lamenta coi due che mentre erano al capanno a battez­zare non rispondevano ai cellulari: non riusciva a contattarli telefonicamente per avere in­formazioni sul luogo in cui si sa­rebbe svolto il summit.

I telefoni in occasioni del genere devo­no restare spenti: “Avere un cellulare in tasca è come portarsi appresso un carabi­nieri”, spiegano gli affiliati. Il timore di essere intercettati è forte, e la ‘ndrangheta lombarda ha bisogno di un profilo basso per continuare a gestire i propri affari. An­che perchè le conversazioni, una volta in­tercettate, forniscono sempre preziose in­formazioni per gli inquirenti riguardo ai sodalizi criminali, ai programmi illeciti e ai legami ad oggi indussolubili tra gli in­dagati del locale Lombardia, ovvero l’insieme delle famiglie di ‘ndrangheta della regione già tracciato da Infinito, alla casa madre calabrese.

di Ester Castano tratto da www.isiciliani.it

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Redazione

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