In quest’isola piena di contraddizioni, i paradossi sembrano non finire mai. Anche là, in quel Tribunale simbolo di giustizia e legalità, qualcosa non va, non funziona. Stiamo parlando di business, un business di milioni di euro. Un business “antimafia”.
La mafia fagocita il mondo sano, il commercio, l’economia, il lavoro, la vita. Dà come favore ciò che ogni uomo dovrebbe avere per diritto. Trentadue anni fa, nel pieno della guerra che i Corleonesi iniziarono contro lo Stato, venne ammazzato un uomo, Pio la Torre; un comunista che aveva avuto l’idea di togliere ai mafiosi ciò cui più tengono: i soldi, e il territorio. Quattro mesi dopo viene approvata la legge Rognoni-La Torre (1982), che consentiva il sequestro e la confisca di quei beni macchiati di sangue. Finalmente, lo Stato ha le armi per attaccare i loro patrimoni, per riappropriarsi di quei soldi.
Fino a quel momento, i mafiosi potevano anche andare in carcere, ma da là continuavano ad amministrare tranquillamente il loro patrimonio rimasto inviolato. La storia va avanti. Nel ’96 grazie a Libera nasce la legge 109 che dispone l’uso sociale dei beni confiscati, e finalmente terreni, case, immobili tornano alla comunità, patrimoni insanguinati che vengono lavati e rigettati nella società per creare un’economia pulita, che dia un’alternativa reale al giro di soldi creato dalla criminalità organizzata.
Tutto bellissimo. Nella teoria. Qualcosa però non funziona. Questi beni, sequestrati, confiscati, falliscono uno dopo l’altro. Il novanta per cento di imprese, aziende, immobili, finisce in malora spesso prima ancora di arrivare a confisca. La pericolosa contraddizione che porta a pensare che quando c’è la mafia si lavora, e quando arriva lo Stato si fa la fame. La scusa è sempre la stessa: le imprese mafiose facevano lavorare in nero, avevano i conti irregolari, facevano riciclaggio etc. E sicuramente per numerosi casi è così. Ma ciò non giustifica il fallimento e la liquidazione totale di aziende che fatturavano milioni. E anche quelle aziende che poi vengono riconsegnate ai legittimi proprietari perché dichiarati innocenti, poi, falliscono. Imprese vuote, devastate. Distrutte. Com’è possibile? Se quelle aziende erano pulite, nel giro “sano” dell’economia, perchè quando arrivano nelle mani dello Stato ne escono a pezzi?
Parliamo di aziende e imprese sequestrate perché di dubbia legalità: aziende che forse furono acquistate con proventi mafiosi, o che svolgono attività illecito-mafiose, e che per chiarire questo dubbio vengono poste sotto sequestro ed affidate alla sezione delle misure di prevenzione del Tribunale competente. In questo caso, parliamo del Tribunale di Palermo, che amministra la grande maggioranza dei beni in Sicilia.
Ma vediamo i numeri: i beni confiscati sono circa 12.000 in Italia; di questi più di 5000 sono in Sicilia, circa il 40 per cento. La maggior parte nella provincia di Palermo. Si parla di un giro di circa 30 miliardi di euro, solo a Palermo. Una marea di soldi, un oceano di denaro che potrebbe sollevare quest’isola in crisi ma che purtroppo finiscono nelle tasche dei soliti pochi eletti, distruggendo anzi il fragile capitalismo siciliano.
Questi beni sotto sequestro vengono affidati a un amministratore giudiziario scelto dal giudice del caso, che dovrebbe gestirlo mantenendoli in attività e tenendoli agli stessi livelli che precedevano il sequestro. Questa fase di sequestro, secondo la legge modificata nel 2011, non deve superare i sei mesi, rinnovabili al massimo per altri sei, periodo in cui vengono svolte le dovute indagini e si decide il destino del bene stesso: se dichiarato legato ad attività mafiose esso viene confiscato e destinato al riutilizzo sociale; se è pulito viene restituito al proprietario precedente.
Purtroppo la legge non viene applicata: il bene non viene mantenuto nello stato in cui viene consegnato alle autorità, né vengono rispettati i tempi di legge. In media, in bene resta sotto sequestro per 5-6 anni; ma ci sono casi in cui i tempi si prolungano fino ad arrivare a 16 anni. L’albo degli amministratori competenti, che è stato costituito nel gennaio 2014, per legge dovrebbe essere la fonte da cui vengono scelti questi soggetti: in base alle competenze e alle capacità. Ma la scelta è arbitraria, effettuata dai giudici della sezione delle misure di prevenzione. Ritroviamo molto spesso la solita trentina di nomi, che amministrano decine di aziende e imprese. Non per capacità accertata, visto che la maggior parte di quei beni falliscono durante la fase di sequestro (anche se magari vengono dichiarati esterni alle vicende in esame e gli imputati assolti da tutte le accuse).
Facciamo un esempio: Cappellano Seminara, il “re” degli amministratori giudiziari,“l’uomo dei cinquantasei incarichi”, è arrivato a amministrare quasi una sessantina di beni, che con le varie ramificazioni diventano 254 tra imprese, aziende e immobili. Un’avvocato che si occupa di fare economia e business, e che mensilmente guadagna 2500 euro per ogni azienda a suo carico
E sarebbero anche soldi giustificabili se quest’amministratore fosse competente. Ma con 256 incarichi risulta impossibile anche solo visitarle una volta tutte all’anno. Come fa quindi ad amministrarle? Molte aziende falliscono. Il soggetto in questione al momento è indagato, per truffa aggravata, per il caso di una discarica in Romania: la discarica di Glina, che amministrava parzialmente, avendo tentato tramite prestanome di entrare nel consiglio di amministrazione. Ma nonostante ciò, continua il suo lavoro e gli vengono affidati altri incarichi. Seminara è ora uno degli avvocati più ricchi della Sicilia, con uno stipendio milionario: (provate a fare 256x 2500 euro, per dodici mesi: fanno circa settemilioni e mezzo l’anno) ma con decine di lavoratori licenziati – quelli delle aziende fallite sotto la sua amministrazione – sulle spalle.
Questi stipendi “manageriali” devono essere pagati dall’azienda stessa, che teoricamente dovrebbe funzionare. Ma ai 2500 euro mensili per Seminara si sommano gli stipendi dei vari collaboratori che dovrebbero aiutare l’amministratore a far funzionare il bene, e che percepiscono un onorario di circa 1500 euro. E non è finita: c’è ancora il perito (sempre nominato dal tribunale) incaricato di dare un valore economico al bene, cui spetta un compenso pari all’un per cento della valutazione.
Seminara – a parte tutto – è incompatibile con alcuni degli incarichi che svolge. E’ il proprietario di un albergo a Palermo, l’albergo Brunaccini. L’amministratrice delegata è la nonna, di 84 anni. Lo stesso Seminara ha contribuito a far sequestrare un altro albergo vicino – e concorrente – al suo perché, a suo giudizio, “vicino ad ambienti mafiosi”.
Ma a chi rendono conto questi amministratori giudiziari e i vari coadiutori e periti? A controllarli sono gli stessi giudici che li hanno nominati, e solo loro. A Palermo, sulla sezione delle Misure di Prevenzione del tribunale, con a capo la dottoressa Silvana Saguto, ricade la responsabilità di gestire – affidandoli a terzi – beni per circa trenta miliardi di euro. Troppi soldi per troppo poche mani..
La dichiarazione di fallimento e la messa in liquidazione dei beni confiscati è la strada più facile per gli amministratori, perché li esonera dall’obbligo della rendicontazione e consente loro di “svendere” mezzi, attrezzature, materiali, anche con fatturazioni non conformi al valore reale dei beni, girando spesso gli stessi beni ad aziende collaterali legate agli amministratori. La pratica di vendere parti delle aziende stesse mentre sono ancora sotto sequestro è abbastanza consolidata: succede così di ritrovarsi con aziende svuotate e distrutte ancor prima del giudizio definitivo, sia esso di confisca o di dissequestro.
Questi sono solo alcuni esempi, alcune storture del sistema; ma molti sono i casi che riflettono un problema strutturale: una legge limitata, da aggiornare, che non permette gli adeguati controlli e conduce troppo spesso al fallimento dei beni per le incapacità del sistema.
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