Ad una ginnastica d’obbedienza si deve dire no
Peppino Impastato, Roberto Mancini, Vera Pegna. Tre persone che hanno dedicato la vita a costruire un mondo migliore e che ci insegnano che contro ingiustizie, oppressioni e mafie ribellarsi si può e si deve …
[ot-video]
Salvo Vitale in un articolo su Antimafia2000 nel febbraio 2002 spiegò che sono tantissime le differenze tra il film “I Cento passi” e quanto accadde in quegli anni. Ma ci sono scene che possono, nonostante tutto, essere considerate più che significative della militanza politica e sociale di Peppino. Una militanza che mai si rassegna e mai diventerà quella di un soldato di ordini altrui. La militanza di Peppino, il lavoro di denuncia e inchiesta sociale di Radio Aut è ribellione ai poteri forti, al compromesso, alla rassegnazione. Quella rassegnazione, che fa sempre rima con favore al padrone e alla classe avversa, che continua ad insinuarsi tra coloro che si dicono compagni (o lo si diceva una volta …).
[ot-video]
In nome della “politica”, delle elezioni, di tattiche e strategie presuntuosamente raffinate si accettano compromessi, rapporti, alleanze, sostegni mettendo in secondo piano verità, pensiero, ideali. Si è considerata la politica non la massima attività dell’agire nella società per quel “movimento reale” che punta ad abolire lo stato di cose presenti, ma il luogo in cui cedere al ribasso, trasformare le proprie idee e ideali in una sorta di baratto con chi fino a ieri disprezzavi e combattevi, delle strategie e delle tattiche per stare nel Palazzo e nel Potere. È il motivo per cui Peppino Impastato ruppe con il PCI e Stefano Venuti, è il motivo per cui militanti come Peppino e tanti altri erano e saranno sempre scomodi. “Non rinchiuderti nelle tue stanze, rimani amico dei ragazzi di strada” che poi troppo spesso son le stanze delle istituzioni, dei Palazzi, le stanze dei bottoni dove ci si accorda con chi è avversario dei “ragazzi di strada”. E un po’ alla volta lo si considera normale, ci si rassegna e non si riesce più a concepire altra politica. Si vive in funzione solo di coloro con cui fare compromessi, coloro che dovresti (e forse lo fai nel profondo del cuore) disprezzare e avversare e tutto il resto va in secondo, terzo, quarto, ultimo piano. “Vivi nella stessa strada, prendi il caffè nello stesso bar, alla fine ti sembrano come te”, ci si abitua alle loro facce, non ci si accorge più di niente. E i ragazzi di strada, gli ideali, le lotte diventano fastidiosi se non funzionali al sistema, alle elezioni, al programma del Palazzo. Un po’ alla volta ci si rassegna che nulla può cambiare per arrivare alla fine ad adeguarsi e pensare che poi “perché cambiare? Alla fine è tanto carino e utile così”.
Roberto Mancini, il poliziotto che per primo indagò e scoprì la “Terra dei Fuochi”, poteva scegliere la carriera, accettare qualche compromesso e fare come fanno tanti. Ma lui fino alla fine rimase fedele al ragazzo che negli anni delle scuole scendeva in piazza, al comunista che ha sempre creduto che fosse possibile un mondo migliore e che davanti alle ingiustizie e alle oppressioni c’è una sola strada, la lotta senza se se e senza ma, a viso aperto, senza mai tacere. “Un bel tacer mai scritto fu”, come esclama Ericlea (la nutrice di Ulisse) nell’opera “Il ritorno di Ulisse”, vale in questi casi come non mai. Nel capitolo del libro “Io morto per dovere” intitolato “La fondina a destra e il Manifesto sotto braccio” leggiamo “Sarà lui stesso, sul letto d’ospedale, poco prima di morire, a enfatizzare lo spirito che l’ha sempre contraddistinto, scrivendo: «L’essere quel che sono mi ha penalizzato. La professionalità dovrebbe essere l’unico elemento di giudizio, dovrebbe essere sempre presente nella valutazione delle capacità di un investigatore. E invece no! È obbligatorio obbedire agli ordini superiori al di là di ogni logica, al di là di ogni buon senso e così la carriera è assicurata». E ancora: «Per fare carriera devi essere quel che non sei. Devi uniformarti al comportamento della massa. Non devi discutere le decisioni dei superiori. Soprattutto non devi dimostrare che ne sai di più di chi deve decidere!». Sono queste le regole per avere successo in polizia, ma Roberto non si piega e qualcuno nell’ambiente non gli perdona il suo odio per la neutralità”.
Vera Pegna fu la militante del PCI che a 28 anni sfidò don Peppino Panzeca e la mafia di Caccamo. Al primo comizio disse al microfono “Prova, prova, per don Peppino. Se rimane seduto davanti a noi allora è vero che è un mafioso; e se è così allora gli chiedo di alzare gli occhi e sorridere che gli voglio fare la fotografia” e don Peppino se ne andò a gambe levate. Quelle elezioni consegnarono per la prima volta al comune di Caccamo un’opposizione alla DC e al dominio mafioso di don Peppino. È servito il coraggio e l’intraprendenza di Vera, di chi ha voluto rompere la rete che avvolgeva tutto e tutti, di chi senza calcoli e tattiche non fece altro che lottare per la giustizia e nella libertà. Don Peppino Panzeca aveva una sedia, una bella poltrona, riservata in consiglio comunale accanto al sindaco. Racconta Vera Pegna che “il giorno in cui entrammo al consiglio comunale andai a sedermi io sulla poltrona di don Peppino. E nella sala del Municipio calò un silenzio pesante. Fino a quando arrivò trafelato un commesso che mi pregò gentilmente di alzarmi perché doveva togliere quella sedia, che in quel posto non aveva più senso. Così io mi alzo e lui toglie la poltrona fra gli applausi del pubblico”.