L’inchiesta “Mondo di Mezzo” (più nota come “Mafia Capitale”) a Roma ha acceso definitivamente i riflettori sulle dinamiche mafiose che inquinano la vita politica e sociale. Nei primi mesi del 2019, grazie ai giornalisti d’inchiesta Nello Trocchia e Floriana Bulfon, il “mondo di mezzo” è stato documentato, analizzato e denunciato anche nelle librerie. Nel libro “Casamonica – viaggio nel mondo parallelo del clan che ha conquistato Roma” (in ordine cronologico il primo uscito) Nello Trocchia, oltre a riportare nomi, fatti (come le connessioni e l’esser cresciuti all’ombra dell’ex cassiere della banda della Magliana Nicoletti) e inchieste, sottolinea un dato che riporta alle origini dei Casamonica e di altri criminali “re di Roma”: la galassia criminale imperniata sui Casamonica va oltre i suoi mille appartenenti e il loro impero romano, a partire da altre “famiglie” come Spada, Di Silvio e De Rosa. Cognomi che, in larga parte, riconducono all’Abruzzo. La Regione, insieme al Molise, da cui i Casamonica partirono per la Capitale. Così come sono originari dell’Abruzzo i Fasciani e i Tredicine. Ma non è solo una questione di origini e lontane radici. In realtà è cronaca nera anche degli ultimi anni, costantemente presente negli atti giudiziari e nella stampa abruzzese. La favoletta dell’Abruzzo isola felice, sanissima con al massimo qualche “problemino” dopo il terremoto (copyright tra gli altri dell’ultima ex presidente della Commissione Antimafia e di quella che dovrebbe essere la maggior associazione impegnata contro le mafie d’Italia), è costantemente smentita da almeno 20/30 anni. E della vera storia d’Abruzzo e dei suoi “mondi di mezzo”, fatti di usura, estorsione, sfruttamento della prostituzione, violenze continue, gli affiliati e alleati dei Casamonica sono da sempre tra i maggiori protagonisti.
Il “ferro di cavallo” e l’ascesa dei Ciarelli
Si spara sempre più e con grande facilità a Pescara, vari sono stati i sequestri di armi da parte delle forze dell’ordine. Si spara e si arriva anche ad uccidere. Nel solo 2012 furono assassinate 3 persone e la sera del 25 aprile una prostituta fu vittima di un altro agguato. Quasi tutti questi fatti di cronaca hanno coinvolto tutti esponenti di una sola famiglia: quella dei Ciarelli. Una famiglia da tantissimi anni protagonisti della cronaca giudiziaria, a partire dal traffico di stupefacenti. Una zona di Pescara, quella tra Rancitelli e Ferro di cavallo di via Tavo, è considerata un vero e proprio supermarket della droga, un centro commerciale che costituisce un punto di riferimento anche per lo spaccio di altre zone della Regione.
Gli inquirenti nel gennaio 2005 colpiscono quello che considerarono un vero e proprio sodalizio tra i Ciarelli e persone provenienti dall’Albania, sostenendo l’esistenza di una fittissima rete tra Pescara, il Nord Italia, l’Albania stessa e la Puglia, dove gli Spinelli avrebbero garantito l’aggancio con alcuni esponenti di spicco della Sacra Corona Unita. Anche a seguito di operazioni come queste, i canali di rifornimento del mercato pescarese della droga negli ultimi anni si sono spostati da Albania e Puglia alla Campania, portando al rafforzamento del connubio tra i mercati e i mercanti delle due regioni.
I membri della famiglia Ciarelli, considerati da inquirenti e stampa locale un vero e proprio clan, appaiono tra i maggiori protagonisti dello spaccio di stupefacenti. Giunti dal vicino Molise quarant’anni fa circa (casualità vuole proprio negli anni in cui i Casamonica da Pescara si diressero verso Roma), dagli Anni Novanta sono considerati tra i padroni del mercato della droga. La loro ascesa viene fatta iniziare in quello che fu definito il “battesimo del sangue”: a cavallo tra gli Anni Settanta e Ottanta, sentitosi offeso per non essere stato invitato ad una festa di battesimo, uno degli esponenti della famiglia irruppe a Silvi durante la festa sparando. Tutti ricordano la testata violenta contro Daniele Piervincenzi ad Ostia. Nel febbraio di quest’anno c’è stato un seguito nel quartiere Rancitelli di Pescara. Seguito da silenzi, omertà, balbettii imbarazzati. A livello della società civile praticamente le uniche voci – oltre lo sdegno del Sindacato Giornalisti – che si sono levate, denunciando il sottobosco criminale e violento pescarese e abruzzese, sono state del Movimento delle Agende Rosse e di Azione Civile.
Vasto, terra di frontiera
Tra le frontiere abruzzesi della penetrazione delle mafie sicuramente c’è Vasto. A partire dal 2006, anno dell’operazione Histonium, diverse inchieste hanno stroncato il tentativo di costruire vere e proprie cosche autoctone. Tre i dominus intorno ai quali stavano nascendo queste organizzazioni: prima Pasqualone, poi Cozzolino e infine Ferrazzo. Organizzazioni criminali che si erano radicati nel territorio, imponendosi con la violenza e capace di organizzare anche veri e propri attentati. Ma tante altre sono state le inchieste, occorrerebbe probabilmente un libro per ripercorrerle tutte, che hanno stroncato negli anni traffici di stupefacenti, estorsioni e usura. Nell’agosto scorso una delle ultime maggiori che hanno coinvolto “famiglie” imparentate coi Casamonica, Spinelli e De Rosa, e nella quale (per la prima volta in questo territorio!) è comparsa anche un’esponente degli Spada. Altre inchieste, l’ultima all’inizio di quest’anno, ha interessato le rotte del traffico di droga dalla Puglia, spesso proveniente dai Balcani, al vastese. Un traffico internazionale, quello sulla direttiva Albania-Puglia-Vasto, documentato anche da un’inchiesta del reporter spagnolo David Beriain sulle organizzazioni criminali albanesi andato in onda sul canale 9 il 23 gennaio scorso.
L’allontanamento del giudice La Rana per le sue inchieste scomode
Ma Vasto è stata anche la città di un altro episodio, inquietante su certi aspetti e quasi sconosciuto a livello nazionale. A inizi anni Duemila è costretto a lasciare la città il giudice La Rana, nel mirino di una campagna di fango e delegittimazione dopo che alcune sue inchieste avevano toccato alti livelli politici locali. Una campagna partita, riportò il GIP di Chieti, da una “vera e propria spedizione bellica, premeditata, organizzata e studiata nei particolari”. Una spedizione con al centro un vero e proprio dossier, pieno di false accuse, con il quale fu oggetto di svariate denunce nel 2003. Tutte nel tempo rivelatesi infondate. Ma intanto l’obiettivo era stato raggiunto: infangato e allontanato da Vasto il giudice La Rana non poté proseguire le sue inchieste. Nel 2011 dopo la notizia uscita su un quotidiano locale, in realtà destituita di fondamento, che poteva tornare a Vasto il giudice La Rana si vide recapitare un proiettile calibro 9 parabellum e una lettera con il messaggio “sei proprio sicuro di voler tornare a Vasto? Pensaci bene”.
L’arrivo e la permanenza del rampollo della famiglia Riina
Questo è il territorio dove, un anno e mezzo fa, è sbarcato il terzogenito di Totò Riina, Giuseppe Salvatore detto Salvo. L’autore del libro sulla sua famiglia, dove veniva elogiato il padre Totò, presentato anche a Porta a Porta. Già condannato in passato a 8 anni per associazione mafiosa, Salvo Riina era sottoposto a misure restrittive a Padova. Dopo che era stata accertata la sua frequentazione con spacciatori locali, nell’autunno 2017 Salvo Riina viene spedito nella Casa Lavoro di Vasto. Da dove è passato a scontare la sua pena residua in una fattoria sociale nella vicina Casalbordino. E’ tornato libero nel maggio scorso, quando il Tribunale di Pescara gli ha revocato le misure restrittive. La sua assidua attività social, dove continuamente continua a pubblicizzare il suo libro, a spendere parole di gratitudine e vanto per il padre Totò la sua famiglia e altre attività che rendono a dir poco perplessi, ha suscitato alcune prese di posizione negli ultimi mesi degli attivisti locali di Azione Civile e Movimento delle Agende Rosse. Azione Civile ha sottolineato che “nel 2001 passando in autostrada all’altezza di Capaci disse “Ci appizzano (appendono, ndr) ancora le corone di fiori a ‘stu cosu (a questa cosa, ndr)…”, parole che non ha mai rinnegato. Così come non ha mai pubblicamente preso le distanze dalla sua famiglia di origine, o addirittura a collaborare con la magistratura, mentre sui social e in interviste rilasciate non ha mai smesso di “raccontare quello che continua a definire un buon padre”. Il 19 giugno il suo nome è tornato sulle cronache giudiziarie, anche se (al momento in cui quest’articolo viene scritto) per dovere di cronaca va riportato che non risultato essere destinatario di alcun provvedimento dell’autorità giudiziaria. Nell’ambito dell’operazione “Assedio”, condotta dai carabinieri di Agrigento, viene arrestato Angelo Occhipinti, indicato come il nuovo capomafia di Licata. Intercettato dagli inquirenti, durante una “riunione” in un magazzino nel luglio scorso, Occhipinti afferma – riferendosi a Riina Jr – che “quello è un ragazzo che ci scappelliamo tutti” (davanti a quel ragazzo ci togliamo tutti il cappello). E’ la risposta ad uno dei convocati alla riunione, Massimo Tilocca che è stato recluso dal dicembre 2017 al maggio 2018 nella Casa Lavoro di Vasto. Tilocca, secondo quando emerso, aveva appena riferito che – nel periodo trascorso a Vasto – avrebbe ricevuto un pizzino da Salvo Riina con l’ordine, una volta uscito dal carcere, di “stuccare” (ovvero eliminare) un licatese, tal Vincenzo Sorprendente. Nel renderlo noto, a margine dell’operazione “Assedio”, gli inquirenti hanno sottolineato che su questa particolare vicenda le indagini sono ancora in corso e quindi non si può ancora ufficialmente confermare o smentire nulla.
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