Amianto. Una parola che per anni ha animato le cronache nazionali, facendo emergere storie le più diverse. Oggi quella che è una vera strage silenziosa sembra non interessare più. I riflettori si sono abbondantemente spenti e quando se ne sente parlare spesso è solo per le proteste per uno smaltimento costoso e “burocratizzato”. Eppure continua a seminare morte. E ad animare processi penali.
L’Osservatorio Nazionale Amianto nel giugno scorso ha reso noto che, solo nel 2017, le malattie legate all’amianto hanno ucciso 6.000 persone mentre decine di migliaia sono state le persone ammalatesi. L’Organizzazione Mondiale della Sanità, basandosi sulle statistiche relative a mesotelioma, tumore polmonare e asbestosi, ha calcolato i morti in 104.000. Secondo molti studi scientifici il maggior numero di morti ci saranno tra il 2020 e il 2025. Tra i primi Stati a dimostrare la pericolosità dell’amianto per la salute umana fu l’Inghilterra nel 1930. Nel 1943 la Germania attestò il cancro al polmone e il mesotelioma come conseguenza dell’inalazione delle fibre, riconoscendo anche risarcimenti per i lavoratori colpiti. Così come accadde in Italia dopo la legge 257. Una legge giunta al termine di un percorso che ha attraversato larga parte del Novecento. Infatti, per la prima volta in Italia una sentenza del Tribunale di Torino dichiarò nocive per la salute le lavorazioni dell’amianto già nel 1906. Una sentenza confermata l’anno dopo dalla Corte d’Appello. Nel 1941 intervenne la Corte di Cassazione, confermando precedenti sentenze di condanna a risarcire i danni subiti da vittime dell’amianto. Due anni dopo la legge 455 indennizzò per la prima volta l’asbestosi come “malattia professionale”. Notevole importanza a livello internazionale ebbe la “Conferenza Internazionale sugli effetti biologici dell’asbesto” che si tenne nel 1964 presso la New York Academy of Sciences. La Conferenza giunse alla conclusione che si doveva evitare qualsiasi esposizione all’amianto, cancerogeno anche a basse dosi.
LA VICENDA DELLA SVOA DI VASTO (CHIETI), DANNEGGIATI DALL’AMIANTO E BEFFATI DALLO STATO
La Svoa (Società vastese Oli Alimentari) è stata una storica azienda di Vasto in provincia di Chieti. Sorgeva nell’area industriale di Punta Penna, a pochi passi dal mare e dalla stupenda Riserva di Punta Aderci, e chiuse i battenti nel 1993 dopo che la società fu dichiarata fallita. Per decenni gli operai hanno lavorato in un fabbricato e con macchinari industriali dove l’asbesto (o amianto) era quasi l’unico materiale presente. Un anno e mezzo fa ho avuto la possibilità di ricostruire tutta la vicenda degli ex lavoratori Svoa con Franco Cucinieri, ex lavoratore della fabbrica e oggi tecnico ENEA e referente dell’Osservatore Nazionale Amianto che assiste tutti i lavoratori coinvolti nella vertenza. Iniziata nel 2001 quando lo stesso Cucinieri scoprì la morte di un suo ex collega, Michele Acquarola. Colpito dal mesotelioma, Acquarola aveva subito vari interventi di asportazione di parti del polmone. Chiese il riconoscimento della “malattia professionale” ma non riuscì ad andare oltre l’invalidità civile. Riconoscimento che avevano ottenuto altri due ex operai. “La vedova Acquarola – racconta Cucinieri – mi autorizzò ad accedere al certificato necroscopico di Michele. Nel frattempo ci fu un altro decesso, contattai la famiglia e ottenne anche in questo caso di poter accedere al certificato necroscopico”.
L’anno dopo nacque il Coordinamento Esposti Amianto. Da un esposto in Procura presentato dal Coordinamento partirono le indagini a carico di tre ex dirigenti dello stabilimento. L’attenzione degli inquirenti si concentra sulla morte di due ex operai della SVOA. Il procedimento è stato chiuso nel 2009 per “intervenuta prescrizione”.
La Svoa lavorava raffinando e commercializzando oli vegetali per uso alimentare. Inizialmente doveva produrre 25.000 chilogrammi al giorno tra olio raffinato e sottoproduzione, successivamente la capacità fu ampliata a 110.000 chilogrammi al giorno. I lavoratori erano in continuo e costante contatto diretto con l’asbesto. I capannoni erano ricoperti di lastre di amianto. E nell’impiantistica l’amianto era utilizzato in maniera massiccia. Infatti non solo tutti i capannoni dell’azienda erano ricoperti di lastre di amianto, ma anche tutta l’impiantistica ne prevedeva un uso massiccio: guarnizioni, giunti accoppiati, scaricatori di condensa e gli strumenti per la lavorazione degli oli erano composti da una considerevole parte di amianto. Persino i guanti protettivi forniti per proteggersi dalle ustioni erano in amianto. La situazione era aggravata – testimonia Cucinieri nella nostra intervista – dalle correnti che rimuovevano continuamente le polveri e le fibre di amianto disperdendole nell’aria. E all’esterno del sito era presente una discarica dei materiali di risulta contenenti amianto.
LA MATERIT DELLA VALBASENTO, MATERA
È approdata qualche mese fa davanti al gup di Matera la vicenda della ex Materit (già Cemeter) di Ferrandina, in Val Basento. Cinque gli imputati nella vicenda giudiziaria avviata il 6 novembre scorso: Silvano Benitti (Capo servizio tecnico della Cemater dal 1975 ai primi mesi del 1979), Pietro Pini (direttore dello stabilimento Cemater sempre nel periodo 1975-1979), Michele Cardinale (vice presidente del Cda della Materit dal 26 settembre 1984 all’11 ottobre 1985), Michele Bonanni e Lorenzo Mo (componenti del Cda della Materit dall’11 ottobre 1985 fino alla cessazione di attività dello stabilimento, avvenuta il 18 settembre 1989). Le accuse sono di “colpa generica consistita in negligenza, imprudenza e/o imperizia, nonché per colpa specifica consistita in violazione di norme per la prevenzione degli infortuni sul lavoro e delle malattie professionali, cagionavano il decesso di ex lavoratori della fabbrica Materit di Ferrandina, nonché malattie professionali ad altri lavoratori”. Giovanna Desimmeo è la vedova di ex operaio della Materit. “Mi ricordo di quando mio marito mi raccontava di aver mangiato il panino direttamente sul sacco pieno di amianto – ha raccontato al quotidiano La Nuova del Sud – Mi ricordo che quando tornava a casa, prendevo la sua tuta da lavoro e la infilavo in lavatrice insieme alle mie cose e a quelle delle mie figlie. Adesso lui non c’è più e, credimi, mi manca tutto perché lui era il perno della famiglia. Mi manca come l’ossigeno e adesso che ho scoperto di avere anch’io delle macchie ai polmoni e sto facendo i controlli da sola, mi manca ancora di più. Chiediamo la bonifica dell’area e se ci spetta anche qualcosa per noi”. L’attuale vicenda giudiziaria della ex Materit è iniziata nel 2012 quando oltre 50 (su 100) ex lavoratori hanno presentato una denuncia alla Procura di Matera.
Oggi lo stabilimento è completamente abbandonato. Al suo interno vi sono ancora 600 sacchi pieni di amianto tossico pericoloso. Un’inchiesta del maggio scorso di Tg2000 ha documentato che da alcuni sacchi, che dovrebbero essere sigillati, fuoriesce polvere di amianto. L’ex stabilimento confina con il fiume Basento che sfocia nel Mar Ionio. Un censimento dei rifiuti presenti nell’area è stato effettuato nel 2005: una quantità imprecisata di amianto bianco e amianto blu, 400 tonnellate distribuite in big-bags di fanghi recuperati dalle vasche e dai coni di decantazione contenenti amianto in concentrazione pari allo 0,5 per cento, 25 tonnellate circa in 110 big-bags di rifiuti friabili polverulenti contenenti amianto, 15 tonnellate in 12 big-bags di ceneri volanti da sili di stoccaggio, 5 tonnellate in 5 bib-bags di polvere di silice alcuni dei registrati. Nello stesso anno una relazione tecnica ha rilevato amianto e manganese in quantità superiori alla norma nei terreni e nelle acqua di falda nei pressi dell’ex stabilimento. Nel 2010 la vedova di un ex operaio deceduto ha rivelato all’Espresso “Mi sentivo stanca, pensavo fosse per quello che ho dovuto passare negli ultimi tempi. Invece ho fatto gli esami ed è venuto fuori che avevo un tumore al seno. Ma non ero preoccupata, so che si può guarire e ho fiducia nella scienza. Poi invece la Tac ha trovato metastasi ovunque e mi hanno detto che era inutile pure l’operazione”. Leggiamo in un esposto di Medicina Democratica del 2013 che “10 operai degli 86 che ci lavoravano sono morti, 16 si sono ammalati e tutti gli altri vivono un’esistenza sospesa fra controlli medici e il sospetto di essere già condannati”. Nello stesso esposto si ricostruisce brevemente le vicende dell’azienda. “L’ex Materit s.r.l., azienda del gruppo Fibronit con sede amministrativa a Casale Monferrato – scrive il rappresentante legale dell’associazione nell’esposto – è stata in attività dal 1973 al 1989, quando fu chiusa dal Nucleo Operativo Ecologico dei Carabinieri proprio a causa della mancanza di una discarica autorizzata per lo smaltimento dei propri rifiuti. L’azienda fu posta in liquidazione e i lavoratori furono messi in cassa integrazione”.
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