Dirette televisive, giubilo a reti e prime pagine unificate, esultanze sfrenate ovunque. Uno straniero distratto davanti a tutto questo penserebbe che lunedì 24 giugno sia accaduto qualcosa di epocale. Tipo l’inizio di una nuova età dell’oro, l’uscita dalla più grande epidemia della storia, la trasformazione di tutti i più poveri in ultraricchi, la cancellazione di ogni ingiustizia e sperequazione sociale, la scoperta che la disoccupazione è stata cancellata e dal giorno dopo ogni cittadino ha un lavoro con orari umani e alte retribuzioni. Nulla, invece, di tutto questo. Molto più banalmente, il Comitato Olimpico Internazionale ha designato l’Italia – o meglio due città in due regioni (su venti!) – come sede dei Giochi Olimpici invernali del 2026. In molte delle dirette e delle esultanze a reti unificate è stato posto l’accento su due aspetti. Il primo: è stata una “vittoria” bipartisan, dalla Lega al PD al CONI tutti uniti appassionatamente per un obiettivo. Il secondo: accanto al governo, alle Regioni Veneto e Lombardia e al sindaco Sala a Losanna hanno perorato la “causa” anche molti imprenditori. Un fronte spesso definito il “partito del pil” e della “crescita”. Ma, in politica e in economia, nulla è neutrale. Perché, molto banalmente, tutto ha uomini e donne che li promuovono e animano. E tutto ha conseguenze e obiettivi. E il pil, la crescita, le grandi e piccole opere, i cantieri a tutto spiano non divergono da questa dinamica. Cento milioni per una bonifica ambientale utilizzati da una comunità per sanare il territorio non sono uguali a cento milioni forniti a multinazionali del cemento e dell’industria pesante. E piccole e grandi imprese sane, che fanno realmente impresa sociale, non sono uguali a (im)prenditori lobbisti e traffichini. Dovrebbe essere banale e scontato, ma nell’Italia di ieri, oggi e probabilmente domani non lo è.
Importante nota a margine. Negli stessi giorni in cui l’Italia trepidava (e poi esultava) per l’assegnazione delle Olimpiadi invernali 2026 ci sono state, tra le altre, tre notizie. A Piacenza nuova raffica di arresti sulla ‘ndrangheta in Emilia Romagna, Grande Aracri, tra cui il Presidente del Consiglio Comunale di Piacenza. A L’Aquila, la città che dopo dieci anni non ancora vede la fine della ricostruzione e che continua ad essere definito “il più grande cantiere d’Europa”, nuova inchiesta sullo sfruttamento dei lavoratori (mesi fa dopo un’inchiesta simile si parlò esplicitamente di “caporalato”) nei cantieri. A Genova arrestati i due responsabili di un’impresa impegnata sui cantieri del Ponte Morandi, sono vicini alla camorra. Sfogliate i giornali, aprite le testate web, accendete la tv. Quanti minuti e quanto spazio sono stati dedicati a queste 3 (contro una) notizie? La risposta è che, messe tutte insieme, non sono minimamente paragonabili allo spazio dato al giubilo e all’esultanza bipartisan per l’assegnazione delle Olimpiadi 2026. In tutto questo spazio però sono mancati due racconti. Quello sulla storia dei “Grandi Eventi” in Italia. E le conseguenze, in Italia ma non solo, sui bilanci pubblici degli eventi stessi. Un po’ come, ormai da anni, si fa sulla “Trattativa Stato Mafia”, i processi che si sono succeduti e – per esempio – il dossier “Mafia Appalti”. Li raccontano come nomi sic et simpliciter, prima di trattativa aggiungono “presunta” e su “Mafia Appalti” dimenticano di citare dati, fatti e nomi (non può certo essere considerato casuale che gli stessi che sbandierano “Mafia Appalti” si “dimenticano” sempre, per esempio, di citare i nomi di chi fu coinvolto e poi partecipò al grande banchetto del TAV Torino-Lione). E quindi alla fine la verità diventa di comodo, addomesticata, modellata sulla narrazione di certi partiti, gruppi di potere e grande stampa. Arrivano i giochi olimpici, ci saranno tanti lavori. E nulla più. E quindi il lettore e telespettatore si convince che sta arrivando una nuova età dell’oro, che il Paese avrà benefici infiniti, dal Trentino a Lampedusa il cittadino comincerà già a controllare le proprie tasche convinto che tutti vivremo meglio e ci arricchiremo.
Ripercorriamo un po’ di storia. Atene 2004. Ancora oggi ci raccontano che quelle Olimpiadi dovevano venire in Italia, che è stata scippata allo Stivale una poderosa opportunità di sviluppo. Bastano pochi secondi di ricerca e ci si può imbattere in un articolo sulle conseguenze economiche di quelle Olimpiadi. Titolo: “Le Olimpiadi in Grecia del 2004 furono l’inizio del default”. Prendiamo alcuni passaggi. “Il budget di 15 miliardi di euro per finanziare le Olimpiadi greche, poi sforato, furono l’inizio della fine per i conti di Atene, un buco contabile da cui il paese non si risollevò più”, “Oggi il villaggio olimpico che era il progetto più importante (240 milioni di euro investiti) resta abbandonato a se stesso, un triste monumento allo sperpero di denaro pubblico”, “il palazzo dove si giocavano le partite di pallavolo è deserto, abbandonato a stesso, monito perenne di come le Olimpiadi possono diventare un boomerang per i conti pubblici. Le rovine moderne di Atene. Il budget di 15 miliardi di euro per finanziare i Giochi che dovevano essere quelli del 2000 – poi sottratti da Atlanta – furono l’inizio della fine per i conti, un buco da cui non si risollevò più”. Quest’articolo non è opera di un irriducibile No Tav, di un attivista 5 Stelle che vuol difendere a spada tratta Raggi e Appendino, non è opera di un cantore della decrescita felice o di un irriducibile marxista. Sono frasi di un articolo – 14 febbraio 2012 – de “Il Sole 24 Ore”, il quotidiano di Confindustria. L’unica cosa che possiamo aggiungere è giusto un dato, che tanto appassiona economisti e politici del “partito dello sviluppo e delle opere da fare”: in Grecia nel 2002 il rapporto deficit/Pil era al 3.7%, nell’anno olimpico schizzò al 7.5%, il debito pubblico passò da 182 a 201 miliardi di euro. Cosa accadde dopo dovremmo ricordarcelo. Due anni dopo i Giochi olimpici invernali arrivano in Italia. 308.5 milioni di euro. E’ la cifra spesa solo per alcune delle maggiori “cattedrali del deserto”, tra villaggio olimpico, piste e impianti, che Torino 2006 ha lasciato in eredità. 13 anni dopo è ancora in attività, e lo sarà almeno fino al 31 dicembre dell’anno prossimo, un commissario per “le attività residue dei giochi” e che si trova a gestire 29 milioni di euro mai tornati alla collettività. Nel 2001 il debito del Comune di Torino ammontava a 1.7 miliardi, dopo i Giochi del 2006 schizzarono a 2.98 miliardi. Rispetto alle stime iniziali – circa 500 milioni di euro – il costo finale dei Giochi si moltiplicò di sette volte. E’ una storia infinita, ripercorrere tutte le tappe – da Italia 90 all’Expo 2015 (per ora!) – avrebbe bisogno di tomi enciclopedici. Il bilancio pubblico, per Italia 90, prevedeva ancora nel 2004 voci per mutui accesi di 61 milioni e 200 mila euro. Anche per impianti sportivi nel frattempo demoliti! L’Air Terminal di Ostiense costò 180 milioni di euro, fu abbandonato poco dopo i Mondiali e recuperato solo da Farinetti nel 2012 per Eataly. La stazione Farneto, in zona Farnesina a Roma, costò 7 milioni e mezzo di euro e fu utilizzata da 12 treni in 20 giorni. Ma, oltre questo, negli anni si sono intervallate inchieste parlamentari, indagini della magistratura su appalti truccati. Tutto finì nel porto delle nebbie. Ma un dato sembra emergere: 9 appalti su dieci erano senza controllo.
L’Expo di Milano è la più plastica rappresentazione di dinamiche e centri di potere consolidati su appalti, grandi eventi e simili. L’evento si è tenuto nel 2015. Il 16 dicembre di due anni prima Francesco Paolo Tronca riporta alla commissione parlamentare antimafia le risultanze delle indagini su alcune dei lavori, solo per la Tangenziale esterna est 7 imprese erano già state colpite da interdittive antimafia. Ottobre 2016. La procura milanese dispone gli arresti di 14 tra manager e imprenditori calabresi e lombardi, indagini su corruzione in vari subappalti tra cui lavori per Expo. Qualche settimana dopo ad alcuni degli indagati fu contestata l’aggravante mafiosa. Imprenditori prestanome dei clan impegnati nel 70%, dei lavori tra cui i padiglioni Italia, Cina ed Ecuador, le rampe di accesso e la rete fognante. Tramite prestanome sugli appalti avevano messo le mani le cosche Aquino-Coluccio di Marina di Gioiosa Jonica e la cosca Piromalli-Bellocco di Rosarno. Grandi opere, cantieri da sbloccare, l’Italia del Fare che si oppone all’Italia del No, ma non si può dire sempre no a tutto. Quante volte sentiamo queste frasi. Ora, sfatiamo un mito. Non si dice no a tutto (tav, mose, alta velocità in varie regioni, ecc.), il no è uno e una solo: alla corruzione imperante sulle spalle dei territori, che vengono devastati, e delle casse pubbliche, che vengono dissanguate. Abbiamo appena ricordato brevemente inchieste giudiziarie su Expo. Ma si potrebbe scrivere ancora per giorni e giorni. Ed Expo si aggiunge ad un lunghissimo elenco che coinvolge tutto lo Stivale. Dalla Tav in Val Susa al Mose di Venezia, dalla TAV di Afragola ai post terremoti 2009 e 2016, l’elenco è sterminato. (Im)prenditori, prestanome dei clan, mafie, politici corrotti, cattedrali nel deserto e “opere” inutili. Se dovessimo sintetizzare con uno slogan potremmo scrivere “dove c’è grande ci sono mafie e corruzioni”. Sulle Olimpiadi 2026 già è partita la fanfara degli annunci su mafia, ndrangheta e corruzione che rimarranno fuori. Era stato detto prima di Expo, era stato detto dopo il terremoto aquilano, è stato sempre ripetuto. E sappiamo come è finita. Anche ora non possiamo che concludere in una sola maniera: c’è ben poco da festeggiare e tanto da allarmarsi.
Alessio Di Florio
Uscito nel settembre del 2000, ha 24 anni ma non li dimostra.” I cento passi” ha…
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