Alla testa del corteo

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Il bambino pedala allegramente una ventina di metri avanti al corteo e ogni tanto si ferma e mette in mano al passante una copia dei Siciliani che è fieramente impegnato a distribuire. È un bambino del Gapa, uno di San Cristoforo, uno del doposcuola. Lo guardano distrattamente i poliziotti, lui non fa caso a loro. Alle spalle, il corteo avanza lento, con lo striscione dei Siciliani in testa e un paio di centinaia di cittadini che marciano in silenzio. Il gelo di gennaio dà al tutto un’aria vagamente pietroburghese, col sole e gli striscioni e i passi rilassati e decisi.

Poliziotti e bambino, in realtà, dovrebbero guardarsi in cagnesco, nemici irriducibili per destino. Lui, nelle statistiche giudiziarie, dovrebbe infallibilmente entrarci fra due o tre anni, da adolescente povero catanese; loro, gran parte del tempo dovrebbero impiegarlo per correre dappresso a quelli come lui: così vorrebbe il Sistema. Eppure stavolta non sarà così. Lui crescerà – alla faccia dei baroni – sano e tranquillo, imparerà cose buone, sarà felice e utile, conquisterà dei diritti. Loro non cacceranno più delinquentelli di quartiere ma mafiosi e capimafia, questi ultimi con tanto di colletto bianco e soldi in Svizzera o nei centri commerciali.

Sarà così domani, garantito. Siamo tutti a lavorare per questo, anzi è già cominciato. E intanto il nostro piccolo attivista-ciclista vola, è lui che in realtà guida – guardatelo! – il corteo.

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Non è semplice organizzare questi cortei, non lo è mai stato in tutti questi anni. Assemblee interminabili, con gran dibattiti lunghi e spaccature di capelli in quattro. Poi però, una volta esaurito il rito, al corteo ci vengono tutti quanti. E una volta lì, ti accorgi che in realtà non c’è niente a dividere gli uni dagli altri, che le facce son simili, che il piccolo popolo è unito, e che è in cammino. Politici non ce ne sono, o se ci sono non contano, grigi fra i loro vigili come corvi infiltrati fra gli uccellini. C’è solo la “politica” – se vuoi chiamarla così – delle speranze e dei dolori quotidiani, della vita comune, che un giorno sarà migliore se ce la conquisteremo tutti insieme: una fede antichissima, senza grandi parole, che in ogni luogo del mondo ha nomi e volti mutevoli – qui, Titta Scidà o Pippo Fava o Peppino Impastato – che puoi incontrare ogni giorno, perché sono di essere come te, persone comuni.

Questi cortei non si sciolgono: nascosti nelle giornate comuni, risgorgano all’improvviso quando occorre. Ne vedrete ancora altri, quest’anno. La città non è sana, nella città c’è dolore, i giovani ormai se ne fuggono a diciott’anni; il potere è mafioso. Né le parole truci o ridicole (“Andatevene che è meglio per tutti”, “Ne abbiamo parlato col papa”) cambiano questa realtà. Cambierà, solo se la faremo cambiare noi, quelli che non hanno potere, quelli che ufficialmente non dovrebbero contare mai niente.

Ma non è sempre così: ogni tanto, chi non ha mai contato si sveglia, e ha molte cose da dire, molte cose da chiedere, e alla fine se le prende. Ci rivedremo ancora in piazza, quest’anno, determinati e decisi. V’illuderete che non ci siamo più, non sentendoci urlare. Ma anche il silenzio parla, parla sempre più forte.

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