Addio a Leonard Cohen, cantore della malinconia, menestrello delle emozioni
È morto a 82 anni Leonard Norman Cohen, uno dei più grandi cantautori nella storia della musica.
«Abbiamo perso uno dei piu’ prolifici visionari», ha commentato la sua casa editrice nell’annunciarne la scomparsa. Difficile dargli un posto tra la generazione di cantanti che, a partire dagli anni Sessanta e Settanta hanno dato una svolta al modo di sentire e vivere la musica non come momento di svago o espressione di un’emozione, ma come riflessione, stimolo all’impegno sociale, introspezione all’interno di tormentate ricerche di religiosità. Assieme a Bob Dylan e a Joan Baez e alla sua conterranea Joni Mitchell ha influenzato la “generazione del ’68” esercitarono probabilmente un’influenza più profonda sulla loro generazione. Nato a Westmount, nel Quebec il 21 settembre 1934, da una famiglia ebrea, aveva cominciato presto a suonare la chitarra in un gruppo folk da lui creato, i Buckskin Boys. Dopo la laurea, nella sua ossessionante ricerca di luce, di ispirazione e di spiritualità, si era trasferito nell’isola greca di Hydra pubblicando due libri di poesie. «Per scrivere libri hai bisogno di un posto dove stare. Quando uno scrittore lavora a un romanzo, tende a circondarsi di determinate cose. Ha bisogno di una donna. Ed è bello anche avere dei bambini fra i piedi, poiché cibo non manca. Siccome io queste cose le avevo già, ho deciso di diventare songwriter». A Hydra Cohen visse per sette anni con Marianne Jenson e il figlio di lei Axel e scrisse due romanzi, The Favorite Game, nel 1963, ritratto autobiografico di un giovane ebreo di Montreal con ambizioni artistiche, e Beautiful Losers.
Tornato a Montreal, dove lavorò in una fabbrica di vestiti, si spostò a New York, dove cominciò la sua carriera di successi frequentando i più noti artisti del folk-rock, Judi Collins, Andy Warhol e i Velvet Underground con la cantante tedesca Nico. Per il resto la sua vita è un alternarsi di presenze e di lunghe assenze dalle scene, alla ricerca di nuove ispirazioni e di risposte spesso non trovate, di cui costituisce un aspetto e un momento la sua “conversione” al buddismo.
Ecco alcuni passaggi riportati nella biografia di Claudio Fabretti e di Valerio Bispuri, che lasciano intravedere solo qualche passaggio della sua tormentata ricerca interiore di spiritualità: «C’erano molti lati di me che avevo sostenuto con la religione» dichiarò Cohen a L.A. Style nel 1988. «Se hai a che fare con questo materiale non ci puoi mettere Dio. Pensavo che potevo illuminare il mio mondo e quello della gente intorno a me e di potere prendere il cammino di Bodhisattva cioè il cammino dell’aiutare gli altri. Pensavo di poterlo fare ma non ci sono riuscito. Questa è una strada dove persone molto più forti, generose e nobili di me si sono bruciate. Quando si comincia a trattare materiale sacro ci si lacera profondamente» […] «Una volta Allen Ginsberg gli domandò come faceva a conciliare la religione giudaica con la dottrina Zen, e Leonard ribatté che lo Zen è più una forma di meditazione atea che una religione deistica. Non cercavo una nuova religione né l’ebbrezza di una conversione. Sono nato ebreo e morirò ebreo, la religione di famiglia già soddisfa tutti i miei appetiti spirituali». “Cohen è anche il più “europeo” dei cantautori d’oltre oceano. Il suo repertorio è figlio della chanson francese di Jacques Brel e George Brassens, del folk americano, ma anche di una peculiare predilezione per i temi biblici (forte in tal senso l’influsso delle sue radici ebree, così come per il suo umore nero, vagamente yiddish) e per la mitologia classica. Cantore della malinconia, della solitudine, dell’emarginazione e degli amori persi, Cohen scandaglia il cuore di tenebra dell’umanità, componendo un affresco di struggente lirismo”. In Italia è stato un punto di riferimento per Francesco de Gregori e per Fabrizio De Andrè, che ha cantato alcuni suoi pezzi, come la struggente Suzanne e Giovanna D’Arco.
Cohen ha continuato a lavorare e a produrre sino all’ultimo giorno della sua vita: negli ultimi trent’anni sono usciti otto volumi di poesie, due romanzi e undici album. Voleva, come disse, “essere solo un poeta minore” e invece è stato, se non il più grande, uno dei più grandi poeti della canzone.
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