«Come ogni mattina, mi reco alla spiaggia per dare un’occhiata al mare. Le onde si strusciano pigre e sonnolente sulla battigia. Cerco di leggere, in questo lento andirivieni, quello che può essere successo. Di certo l’altra sera, lasciandomi davanti casa, Peppino avrà fatto questa strada e si sarà fermato, come spesso faceva, qui. Lo vedo. Spegne il motore. Scende dalla macchina per sentire la sabbia sotto i piedi. In cielo svanisce l’ultima striscia di tramonto. Dentro il sonno del mare nero si intravede un impercettibile movimento d’occhi, quelli dei suoi assassini che stanno preparando l’agguato. Tracce di luce, quasi briciole di stelle allo specchio, si impigliano come alghe tra i suoi capelli. È il suo momento magico. Si sveste di tutto, del peso della giornata, della radio, dei compagni, del fumo della sigaretta. La rigenerazione si compie tra aliti e respiri, risata dell’onda breve, ubriacatura di odori, fruizione di suoni nel circolo del sangue, immersione definitiva. Tutto è incompiuto dietro il muro dell’attesa. Nel gorgo sparisce l’incomprensione del giorno e ogni mistero, si estende una piatta calma, senza illusione d’alba. Ora ne sono certo: è qui che l’hanno preso, quando era del tutto indifeso e rilassato.
Vado a Cinisi a cercare i compagni. Decidiamo di andare a fare un sopralluogo dov’è stato commesso il delitto. Agostino, che fa il falegname, ha preparato un grande cartello con la scritta:
È in quel momento che io e tutti i miei compagni abbiamo la sensazione di non essere più soli, di non essere più vittime costrette a sopportare la violenza della mafia e l’ingiustizia dello stato. Malgrado lo sfascio del ’77 il movimento non è morto, i compagni sono qui a volere verità e giustizia, ad accompagnare uno di loro per l’estremo saluto.
Comincia ad avvertirsi un po’ di movimento quando arriva la bara con i resti di Peppino. È una pioggia di garofani che arrivano dall’alto, pesanti come pietre e leggeri come farfalle. Sono il primo a rompere il silenzio gridando: “Peppino è vivo e lotta insieme a noi, le nostre idee non moriranno mai”. Gli altri mi riprendono. Il corteo si snoda. Davanti Filippo e Mimì portano uno striscione improvvisato, dove, con una bomboletta è stato scritto: “Con le idee e il coraggio di Peppino noi continuiamo”. Segue la bara, portata a turno dai compagni in lacrime, dietro Felicia, sua sorella Fara, Felicetta e Giovanni, che di colpo alza il pugno, seguito da tutti. Cominciano una serie di slogan:
In serata ci vediamo alla radio. Troviamo la sorpresa del lineare spaccato. Non abbiamo mai capito com’è potuto accadere, ma è chiaro che tutta l’attività radiofonica è sospesa e che non sarà facile fare riparare il guasto. All’improvvisata assemblea partecipano alcuni compagni di Palermo, tra i quali Umberto Santino e sua moglie Anna. Ci si comincia a porre il problema del “che fare?” e di come continuare. Bisogna l’indomani chiudere la campagna elettorale e, comunque continuare a dare forti segnali di presenza: il comizio risulta già prenotato da Peppino. Nessuno di noi si sente di parlare, anche perché non siamo sicuri di tenere sotto controllo la nostra rabbia. Umberto propone di contattare Franco Calamida, della Direzione nazionale di Democrazia Proletaria, in quei giorni in Sicilia; parlerà anche, su nostra indicazione, per dare un segnale di continuità, Giampiero La Fata, che è candidato. Si comincia a pensare anche a un collegio di difesa, alla nomina di un perito di parte e a un nuovo sopralluogo sul posto del delitto».
(Dal libro di Salvo Vitale “Cento passi ancora” – Editore Rubbettino, 2014)
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