Voglio vivere come Enzo Baldoni
Ci sono momenti, nella vita di ciascuno, in cui si sente il bisogno, quasi fisiologico, di ispirarsi a qualcuno. Certo, la vita ti viene incontro, propinandoti per anni una serie di modelli da incarnare e orme da seguire. Il momento, però, in cui scegli realmente chi vuoi essere e cosa vuoi diventare non lo dimentichi facilmente.
Quando ho scelto per la prima volta di voler fare il giornalista ammetto di essere rimasto stregato dalle interviste di Enzo Biagi: la camminata lungo il perimetro del penitenziario americano di Otisville che precede l’intervista al banchiere e criminale italiano Michele Sindona o la premessa con la quale annuncia l’inizio di una chiacchierata con il pentito mafioso Tommaso Buscetta è roba forte per chi vuole fare questo mestiere. Tuttavia, per quanto questo possa aver significato tanto nella nascita della mia passione e nella dedizione della mia formazione, sono altre le persone a cui ho scelto di ispirarmi. E tra queste c’è Enzo Baldoni.
Oggi, 26 agosto 2015, sono undici anni che Enzo Baldoni non c’è più. Strappato alla Terra, che tanto amava raccontare, da qualcuno che aveva intravisto una minaccia dietro i suoi occhi assetati di conoscenza e il suo sguardo curioso da bonaccione. Una di quelle persone che non hai mai incontrato, ma che ti sembra di conoscere da una vita. Uno di quelli da non dimenticare mai.
Enzo Baldoni nasce a Città di Castello l’8 ottobre 1948. E’ un copywriter di successo, come testimoniano le tante campagne pubblicitarie geniali e innovative create per grandi marchi dalla sua agenzia “Le balene colpiscono ancora”. Sposato con Giusy Bonsignore, è padre di due figli, Guido e Gabriella. Tra le sue passioni più grandi c’è la narrazione. La sua penna, fluida e dinamica, è molto apprezzata, così, in parallelo alla sua attività lavorativa, Enzo collabora con diverse testate (Diario, Linus, Specchio della Stampa, il Venerdì di Repubblica). Un amore, quello per la scrittura, che lo porta in ogni angolo di mondo a raccontare e “collezionare personaggi strani e interessanti, spesso guerriglieri”. In Messico per intervistare gli zapatisti e il subcomandante Marcos; in Romania, tra le fogne di Bucarest, a testimoniare la tossicodipendenza dei bambini con il clown Miloud; in Birmania per informare i lettori sullo sterminio della minoranza etnica Karen; nel Timor Est per raccontare i massacri a cui è soggetta la popolazione; nel lebbrosario di Kalaupapa, nelle isole Hawaii, per raccontare la morte causata da una malattia così antica e ancora così attuale; e ancora Cuba; Thailandia, alla ricerca dei fratelli dodicenni Htoo, alla guida del cosiddetto “Esercito di Dio”; Colombia, per intervistare un comandante delle Farc. Una vita, quella di Baldoni, passata a viaggiare “dove succede qualcosa”, evitando in ogni modo rischi inutili, ma con la voglia di raccontare una realtà pura, non filtrata dallo sguardo e dalla penna di qualcun altro. Una curiosità irrazionale condita da una passione seria e cosciente. Una positività e un’allegria fuori dal comune. A testimoniarlo sono queste poche parole, riportate nel suo blog più famoso (Bloghdad, 2004):
[blockquote style=”1″]Qualcuno pensa che io sia un mezzo Rambo che ama provare emozioni forti, vedere la gente morire e respirare l’odore della guerra come Benjamin Willard, l’odore del napalm la mattina in Apocalypse Now, invece sono lontano mille miglia da questa mentalità, molto semplicemente sono curioso. Voglio capire cosa spinge persone normali a imbracciare un mitra per difendersi.[/blockquote]
Nel luglio del 2004 Enzo Baldoni riceve una proposta dalla casa editrice Il Saggiatore: scrivere un libro, in cui si narrano le storie dei capi carismatici e dei combattenti delle tante guerre che ogni giorno provocano morti in tutto il mondo. L’occasione di una vita. Lui non può rifiutare: è da tempo che progetta un viaggio in Kurdistan e, con questo pretesto, il vicino Iraq in guerra potrebbe essere il primo capitolo del suo romanzo. Per l’occasione avvia anche una collaborazione volontaria con la Croce Rossa Italiana, nel tentativo di dare supporto umanitario alla popolazione civile irachena, martoriata dai continui bombardamenti. Purtroppo, però, quello che doveva essere l’inizio dell’ennesima avventura avvincente, si trasforma quasi subito in un drammatico epilogo. Da questo viaggio, infatti, Enzo Baldoni non farà più ritorno a casa. Ucciso barbaramente, dopo un breve periodo di prigionia, dall’ , l’Esercito islamico iracheno, che prima lo rapisce sulla strada per Najaf e poi lo propone come merce di scambio al governo italiano, barattandolo per una ritirata (mai presa seriamente in considerazione) delle truppe militari dal suolo mediorientale. Il suo corpo (o quello che ne resta) verrà restituito solo sei anni più tardi (nel 2010) ai familiari.
Quella di Enzo Baldoni sembra essere l’ennesima tragedia occorsa a chi fa questo mestiere. Ilaria Alpi, Miran Hrovatin, Maria Grazia Cutuli, Raffaele Ciriello, Antonio Russo e, ora, anche lui. Sono solo alcuni dei giornalisti italiani morti “sul campo” per raccontare con passione e dedizione popoli in guerra e cittadinanze martoriate dai poteri forti. Una sorte che negli ultimi tempi interessa da vicino chi decide di andare a toccare con mano propria la realtà di popolazioni e culture orientali, invece che vederla scorrere sugli schermi dei televisori e sulle prime pagine dei giornali. Quella stessa condizione che scatena, nelle viscere dei più appassionati, una voglia incontrollabile di esserci. Non cercando la morte. Quello no. Ma cercando di vivere la propria vita al massimo, senza lasciare agli altri il compito di raccontare le emozioni che meritano di essere vissute. Dalla bocca dei più maligni potrebbe persino uscire qualche parola di saccente prevedibilità sul rischio a cui va incontro chi decide di intraprendere questa strada. Non importa. Quello che più mi preme non è focalizzare la mia attenzione sulla morte, evitabile o meno, di Enzo Baldoni, ma sulla sua vita e sul modo in cui il giornalista italiano ha deciso di trascorrerla.
Una passione e una spensieratezza che trasudano dalle sue parole, riportate nei blog che aggiornava in continuazione durante i suoi viaggi. Frasi che odorano di consapevolezza del rischio corso, che però non può nulla di fronte al desiderio di vivere a a tutta velocità. Frasi come queste, scritte il primo giorno di attività del suo blog iracheno Bloghdad (2004):
[blockquote style=”1″]Si è parlato molto di morte in questi giorni: della morte serena di Zio Carlo, filosofo e yogi, che forse sapeva la data del suo trapasso. Guardando il cielo stellato ho pensato che magari morirò anch’io in Mesopotamia e che non me ne importa un baffo, tutto fa parte di un gigantesco divertente minestrone cosmico, e tanto vale affidarsi al vento, a questa brezza fresca da occidente e al tepore della Terra che mi riscalda il culo. L’indispensabile culo che, finora, mi ha sempre accompagnato.[/blockquote]
[blockquote style=”1″]Stamattina sono stato a un funerale. La cerimonia è andata via liscia e incolore finchè alla fine il prete ha detto: “Ora il figlio vuole dire qualche parola”. Il figlio, in dieci minuti, ha tratteggiato un ritratto vivo, affettuoso e vivace del padre. Un ritratto segna sbavature né esagerazioni né cedimenti al sentimentalismo. Ma quei dieci minuti hanno avuto più calore, colore e spessore di tutto il resto della cerimonia. Il papà era ancora lì tra noi, vivo, e questo sarà il ricordo che ne manterremo. Ordunque, trascurando il fatto che io sono certamente immortale, se per qualche errore del Creatore prima o poi dovesse succedere anche a me di morire – evento verso cui serbo la più tranquilla e sorridente delle disposizioni – ecco le mie istruzioni per l’uso. La mia bara posata a terra, in un ambiente possibilmente laico, ma va bene anche una chiesa, chi se ne frega. Potrebbe essere anche la Casa delle Balene, se ci sarà già o ci sarà ancora. L’ora? Tardo pomeriggio, vero l’ora dell’aperitivo. Se non sarà stato possibile recuperare il cadavere perché magari sono sparito in mare (non è una cattiva morte, ci sono stato vicino: ti prende una gran serenità) in uno dei miei viaggi, andrà bene la sedia dove lavoro col mio ritratto sopra. Verrà data comunicazione, naturalmente per posta elettronica, alla lista Enzo B e a tutte le altre mailing list che avrò all’epoca. Si farà anche un annuncio sui miei blog e su qualsiasi altra diavoleria elettronica verrà inventata nei prossimi cent’anni. Vorrei che tutti fossero vestiti con abiti allegri e colorati. Vorrei che, per non più di trenta minuti complessivi, mia moglie, i miei figli, i miei fratelli e miei amici più stretti tracciassero un breve ritratto del caro estinto, coi mezzi che credono: lettera, ricordo, audiovisivo, canzone, poesia, satira, epigramma, haiku. Ci saranno alcune parole tabù che assolutamente non dovranno essere pronunciate: dolore, perdita, vuoto incolmabile, padre affettuoso, sposo esemplare, valle di lacrime, non lo dimenticheremo mai, inconsolabile, il mondo è un po’ più freddo, sono sempre i migliori che se ne vanno e poi tutti gli eufemismi come si è spento, è scomparso, ci ha lasciati. Il ritratto migliore sarà quello che strapperà più risate fra il pubblico. Quindi dateci dentro e non risparmiatemi. Tanto non avrete mai veramente idea di tutto quello che ho combinato. Poi una tenda si scosterà e apparirà un buffet con vino, panini e paninetti, tartine, dolci, pasta al forno, risotti, birra, salsicce e tutto quel che volete. Vorrei l’orchestra degli Unza, gli zingari di Milano, che cominci a suonare musiche allegre, violini e sax e fisarmoniche. Non mi dispiacerebbe se la gente si mettesse a ballare. Voglio che ognuno versi una goccia di vino sulla bara, checcazzo, mica tutto a voi, in fondo sono io che pago, datene un po’ anche a me. Voglio che si rida – avete notato? Ai funerali si finisce sempre per ridere: è naturale, la vita prende il sopravvento sulla morte – . E si fumi tranquillamente tutto ciò che si vuole. Non mi dispiacerebbe se nascessero nuovi amori. Una sveltina su un soppalco defilato non la considerei un’offesa alla morte, bensì un’offerta alla vita. Verso le otto o le nove, senza tante cerimonie, la mia bara venga portata via in punta di piedi e avviata al crematorio, mentre la musica e la festa continueranno fino a notte inoltrata. Le mie ceneri in mare, direi. Ma fate voi, cazzo mi frega. Basta che non facciate come nel Grande Lebowski[/blockquote]
Un inquietante presagio di morte che sa di sfida lanciata alla vita. Un invito, in piena regola, al destino di fare di lui ciò che gli pare, perché tanto, in ogni modo, con tutte le emozioni forti vissute e tutti i posti meravigliosi visti, avrebbe comunque vinto lui.
Io voglio vivere così.
Io voglio vivere come Enzo Baldoni.