Anche sul crocefisso nelle scuole il governo ha fatto marcia indietro: nonostante l’appoggio dei dalemiani (“Vedere un crocifisso in una scuola non mi ha mai dato fastidio” ha detto una loro esponente) i soliti cavourriani hanno tirato fuori quella baggianata della separazione fra stato e chiesa.
Ma forse, dopo tutto, non era un’idea tanto male. In un paesino della Sicilia, due bande rivali di fedeli di padre Pio si sono affrontate ostilmente, ciascuna brandendo la propria statua esclusiva del santo. C’è un’ondata di totemismo di ritorno: le statue che lacrimano, i padri Pii miracolosi ecc. non hanno nulla a che fare con la religione cristiana, e a dire il vero con nessun’altra religione: sono semplicemente il passaggio successivo all’adorazione del tronco bruciato dal fulmine, o del sasso isolato in mezzo ai campi, o dell’eroe taumaturgo e dunque sacro. Un culto primordiale, coerente con la deculturizzazione del paese e perfettamente omogenea con l’attribuzione di poteri miracolosi ai governanti (i re che guariscono la scrofola imponendo le mali agli ammalati, i presidenti che portano prosperità al paese sorridendo benignamente dalla tivvù).
Il culto del crocefisso, in confronto, è molto più civile. Anche perché, filologicamente, il crocefisso di oggi potrebbe benissimo essere rappresentato disteso a braccia aperte non più su un “patibulum” romano ma – la posizione è la medesima – sul letto esecutorio dell’iniezione letale.
È un’esecuzione regolamentare, in entrambi i casi. La morte del delinquente, o del sovversivo, è una morte “normale” in un impero; né Tacito né il New York Times le dedicano infatti mai più di qualche riga. Una morte non nobile, vergognosa; sono infatti pochissimi, e tipicamente emarginati, coloro che osano – a fatica – mostrare solidarietà con l’ucciso: le donne del villaggio, i pescatori, le puttane; o gli scippatori di Harlem, i disoccupati, i gay. Qualcuno di costoro arriva addirittura a rivendicare con orgoglio l’amicizia col delinquente o l’agitatore ucciso: “Era un tipo tosto – raccontano spavaldamente nei McDonald’s – e noi gli volevamo bene”.
Un giorno dopo l’altro, clandestinamente, comincia a diffondersi la storia del ragazzo fatto fuori perché era dalla parte dei poveracci, uno con più testa degli altri ma un gran cuore, uno di noialtri insomma. E sempre più di frequente, nei cessi del metrò, nei bar d’infimo ordine, al collo dei ragazzini, tatuato sulla spalla d’una ragazza di vita, appare lo strano logo del letto delle esecuzioni (oppure, duemila anni fa, della croce) di cui la polizia non riesce a capire il significato. E a poco a poco la storia esce dalla città in cui è avvenuta (una città del terzo mondo, una delle tante) e arriva, portata dagli emigranti, fino nelle metropoli dell’impero. Un giorno diventerà una delle tante storie perbene che gli studenti middle-class studiano nelle loro scuole. Ma per ora vive come una fiammella, nel quotidiano orrore della vita immigrata. “Da noi, giù in Palestina, un giorno saltò fuori un tizio a dirci che noi e i vip siamo tutti uguali. Stammi a sentire, brother: è una buona notizia…”.
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