Otto marzo
Le dita di Cettina che corrono sulla tastiera
Graziella nuca spavalda
E le ciglia-farfalle di Rosalba
E i capelli di Ester da elfo da ragazzo
Una parlava in piazza contro i Cavalieri
una affrontava le iene
una fra i sassi e i rovi del paesino
una a gettare fili fra Catania e Berlino
E tu, Campanellino, che fra tenerezza e paura
sei rimasta con me quando i più coraggiosi
erano ormai dispersi ai quattro lati del mondo
e il buio a tutti invincibile sembrava
fuori dalla nostra povera stanza
Quanta luce, guerriere mie, quanto passato,
e che povero poeta son diventato
Non più vengono lievi le parole
lo strumento già aguzzo s’è scheggiato
Passa un tram qui nel sole di Milano
e un passero improvviso fugge via.
Qui tutto è lontanissimo. Ho vissuto.
A passo veterano l’ironia
stentatamente arranca nel deserto.
Cos’altro resta? Avessi qui dei fiori
oggi per voi, o almeno una poesia!
In questa ipocrisia di gente-bene
– l’ottomarzo, le feste, le interviste –
vorrei avere una tromba, una bandiera
una tamburo di latta, una parola
per dire: hanno lottato, per potere
ridere insieme a voi degli arrivisti,
dei signorsì, dei vecchi, dei tromboni.
Hanno imparato infine, a quarant’anni,
a scegliersi telefonini e cravatte
senza sbagliare, ad avere misura,
ad essere realisti, a dire e a fare
ciò che tutti fanno e dicono, ad avere un sorriso
quando si parla di ribellarsi, ad essere
– con l’anima ingrassata – pro-fes-sio-na-li.
Voi che siete rimaste come allora,
amiche mie, compagne, sceme-di-guerra,
voi cui i capelli ha segnato, non il cuore,
il grigio della sconfitta, voi che andate
con insolente leggerezza per il mondo dei padroni
voi a nulla rassegnate e di nulla pentite
Voi fate finta un attimo che questa sia una poesia