Sono passati già da dieci anni, trascorsi senza che ce ne accorgessimo. In un’afosa giornata di agosto volò via Fernanda Pivano. Conobbe Kerouac, Hemingway e tutti i grandi della letteratura libertaria. E cominciarono a sognare. Sogni veri, vissuti, profondi. Impastati di stelle e di polvere, la polvere della strada che Nanda ha attraversato con rara intensità e leggerezza. In punta di piedi le sue traduzioni, i suoi libri, hanno scavato un solco nella cultura italiana. Tenera e dolce, senza mai alzare la voce o cercare di imporsi con tracotanza. E’ bastato il cammino, la strada percorsa con i compagni di viaggio più belli.
Troppo spesso la testa non interessa e il cuore viene soffocato. Perché non vengono dati spazio ai sentimenti puri, all’amore e alla libertà che dovrebbero ardere in ogni cuore. Cataloghiamo, incaselliamo, intruppiamo le persone. Un errore che spesso viene ripetuto anche nei movimenti, nelle associazioni. Una persona viene considerata in quanto militante di quel partito, attivista di quel movimento, iscritto di quell’associazione e non perché ha testa e cuore. Una testa che sogna un futuro migliore, un cuore che ama e arde d’amore. Fernanda è stata soprattutto questo. Una donna capace d’amare, un amore libero perché mai domato da lacci e gabbie.
In tempi nei quali parole come libertà e pace vengono violentate sulla punta dei cannoni, Nanda ha rappresentato la vera essenza anarchica e libertaria, l’utopia da costruire quotidianamente che un giorno tutte e tutti saremo di buon cuore. E gli uomini di buon cuore, veramente liberi, sanno rispettare, apprezzare, convivere con l’altro. Fernanda è stata tutto questo. Ed anche di più. Nanda ha lasciato questo mondo in giorni tristi e ipocriti, bugiardi e menzogneri. Giorni che, dieci anni dopo, non sono mai finiti. Di disordini imperiali, guerrafondai, neocoloniali, di dominio, oppressione e rapina per gli interessi e gli affari – come scrisse Hemigway – per rivalità economiche (ma anche politiche e di altra natura) di maiali (pochissimi e ben identificabili) che ne approfittano. Di crisi “economiche” create dalla più brutale speculazione dell’altissima finanza ma scaricate, brutalmente e disumanamente, sugli impoveriti, i lavoratori, i più deboli di ogni latitudine. Quell’umanità vera e autentica che rappresenta il segno dei tempi, la sfida a questa società iniqua e ingiusta. E da cui può, anzi deve, ripartire qualsiasi cambiamento, riparazione, miglioramento del mondo che ci circonda. Altrimenti parole come giustizia, libertà, umanità e solidarietà sono vuote e false come coloro che si afferma di voler combattere.
E’ la narrazione più importante di un grandissimo amico della stessa Fernanda Pivano, maestro, cantore e faro degli ultimi, dei fragili e degli emarginati: Fabrizio De André e di un altro grandissimo che, beffa del calendario, ha carnalmente lasciato questo mondo negli stessi giorni di Nanda: Claudio Lolli. Canzoni le sue di rabbia e malinconia, di amori persi negli autobus e di piazze da riconquistare, di un grande freddo che ci opprime e del male di un’umanità sempre più in cerca di se stessa. Una sorta di male di vivere di chi si sente straniero rispetto al mondo che lo circonda, alle sue borghesi dinamiche e al suo amalgamarsi quotidianamente, alla sopravvivenza mediocre spacciata come grande vita. Un male di vivere che non si rinchiude in se stesso perché per chi soffre veramente il dolore degli altri, parafrasando proprio De André, non è mai un dolore a metà.
Le parole più giuste per raccontare tutto questo probabilmente sono quelle di Salvo Vitale in un’intervista di qualche anno fa. Si riferiva, ovviamente, a Peppino Impastato. Ma sono parole che raccontano una generazione, un’umanità, un malessere che dovrebbe essere politico e che spazza via tante ambiguità, tatticismi, politicismi, egoismi, piccinerie borghesi anche di chi si proclama rivoluzionario, ma oltre il proprio recinto autoreferenziale non riesce proprio ad andare. “La sua scelta di rottura con le regole della storia, con i parametri del buon vivere, della convivenza attraverso l’ipocrisia borghese, la sua radicale rottura con il modello educativo familiare, fatto di imperativi e di norme comportamentali che si era obbligati a rispettare, nascondevano profonde insoddisfazioni, non solo personali, ma anche politiche, nel senso che il malessere di coloro che subivano ingiustizie diventava il suo malessere. Peppino non era capace di dire “me ne frego”, almeno che non si trattasse di scelte personali e affettive. Non era omogeneo con le regole della società mafiosa dentro la quale si era trovato ad agire. Era un diverso. E naturalmente da ciò seguivano a catena ribellione, caratterizzazioni politiche dei modi con cui scontrarsi per distruggere il vecchio mondo e fondarne uno nuovo, interiori solitudini, rabbia nel vedere che il suo progetto politico non era condiviso nella sua purezza, intransigenza della negazione di compromessi , voglia d’evasione, depressione, alienazione. Anche la sua sessualità, in gran parte inespressa, era uno di quei tanti spazi interiori dell’animo di Peppino. In cui era facile perdersi senza un filo conduttore”.
Le canzoni di Claudio Lolli raccontano da generazioni il malessere di questa società senza autentico amore, in cui gli ideali marciscono e l’animo umano (quando esiste ancora) è prigioniero di un freddo sempre più grande. Ma che, nonostante tutto, non si vuole arrendere. Perché l’unica maniera umana di sopravvivere in questa disumana società è cercare di illuminare e riscaldare il dominio dei colletti bianchi e dei grigi doppiopetti. La malinconia di Claudio spinge ad andare oltre, ad aprire finestre verso il sole anche quando è notte fonda, a sognare e vivere i sogni, guardando con sguardo diverso e colorato questo mondo imprigionato nelle catene della borghesia. Il mondo di Claudio Lolli (così come di Faber) sono i luoghi dove si può bere e conversare in compagnia di un barbone, di un emarginato, di uno sconfitto, delle pietre di scarto di questa società da cui invece possono nascere i fiori. E’ il mondo in cui una prostituta vale più di una baronessa, in cui la cultura pullula nei bassifondi della società e i feudi borghesi sono aridi, non interessanti, vuoti e stantii. Da vivere nei vicoli scuri, nei luoghi dove il buon Dio non dà i suoi raggi, dove accarezzare troppo le gobbe, riconoscere i nostri fratelli e vivere felici in Piazza Maggiore ubriacandosi di luna, la terra di nessuno è la nostra terra e l’amore non viene lasciato fuori dagli autobus.
Viviamo tempi di una sofferenza e di un’ingiustizia e oppressione sociale che strappa il cuore, un’angoscia quotidiana che divora e lacera le carni come una coltellata continua, roba da non dormire la notte e stare male a ogni ora del giorno e della notte, senza mai trovare riposo (come si può anche solo pensare di farlo mentre c’è chi crepa e viene violentato nell’animo e nel corpo ogni santo secondo da ingiustizie, prepotenze, oppressioni le più diverse?), che fa piangere per il dolore che senti nelle viscere. E quindi questo mondo piccolo borghese, queste quotidiane convenzioni sociali di una società che si divide in pre-potenti e lacché, feudatari e servi provocano solo il vomito, la nausea, ci si sente sempre più stranieri e alieni.
Diventa vitale rivolgersi altrove, cercare nuove “patrie”, asilo politico in altre piazze e case. Dove non ci siano pre-potenti, ricchi e uno stile di vita egoistico e sfrenato. Dove non si marcisca – per dirla con Pasolini – “in un benessere che è egoismo, stupidità, incultura, pettegolezzo, moralismo, coazione, conformismo”. E in questo mondo, re e regine, cittadini e animatori sarebbero gli ultimi, gli emarginati, i folli, gli sconfitti.
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