Nella giornata ufficiale dedicata alle idee per EXPO ne abbiamo sentite di tutti i colori. Ma a parte le solite sbruffonate di Renzi sull’Italia del 2015, che sarà “felix”, a parte le minacce ai lavoratori della Scala che promettono, per il primo maggio di non lavorare, e quindi di non portare in scena la Turandot, per la gioia e l’esibizione di sfarzo dei partecipanti all’Opera, a parte le solite dimostrazioni dei cosiddetti “centri sociali”, cioè di tutti quelli che considerano l’EXPO un inutile spreco di denaro e uno schiaffo in faccia ai paesi sottosviluppati, a parte qualche uovo alla vernice, a parte tutto, quello che ha lasciato stupiti è la coincidenza tra il messaggio del neo Mattarella e quello di papa Bergoglio-Francesco sulla necessità, per la sopravvivenza dell’umanità, di lottare contro le disuguaglianze sociali e contro la povertà. Papa Francesco è stato chiarissimo: “Basta con l’ inequità, che è la radice di tutti i mali….bisogna dissolvere le cause strutturali della povertà…”.
L’Avvenire, quotidiano dei vescovi, ha evidenziato in prima pagina questo vocabolo: “Inequità” . Confesso che, in un primo momento, anch’io come tanti, ho pensato a un errore. “Inequità” in italiano non esiste: e, del resto, tutti i giornali e i siti che hanno riportato questa frase, hanno scritto “iniquità”, tentando di correggere quello che invece, a mio parere, non è un errore, ma un uso felice e appropriato di un neologismo che vuole ribadire un significato, quello di “non equitas”, cioè mancanza di uguaglianza, che si contrappone alla nequitas, sinonimo di cattiveria, malvagità, nequizia. E che tutto ruoti sull’”equitas”, cioè sul principio di eguaglianza è confermato anche nel richiamo fatto alle parole di papa Woytila.
Bisogna chiarire a quale “uguaglianza” ci si riferisce. “L’Egalitè” è stata uno dei principi immortali della Rivoluzione Francese, nella cui “Dichiarazione” (26 agosto 1789) è già scritto quello che pochi anni prima era stato scritto nella “Dichiarazione d’indipendenza degli Stati Uniti” (1776) cioè che gli uomini “nascono e vivono uguali nei diritti”., che “sono dotati dal loro Creatore di taluni diritti inalienabili, tra i quali il diritto alla vita, alla libertà, alla ricerca della felicità, che i governi sono costituiti allo scopo di garantire questi diritti, che i governi derivano i loro poteri legittimi dal consenso dei governati, che ogni qualvolta un governo tenda a negare lo scopo per il quale è istituito è diritto del popolo abbatterlo e sostituirlo con un nuovo governo corrispondente ai propri desideri”. Molti anni più tardi (1947) ritroveremo questo principio nell’art. 3 della Costituzione italiana “Tutti i cittadini hanno pari dignità sociale e sono eguali davanti alla legge, senza distinzione di sesso di razza, di lingua , di religione , di opinioni politiche , di condizioni personali e sociali.” Con un’aggiunta importante: “E` compito della Repubblica rimuovere gli ostacoli di ordine economico e sociale, che, limitando di fatto la libertà e l’eguaglianza dei cittadini, impediscono il pieno sviluppo della persona umana e l’effettiva partecipazione di tutti i lavoratori all’organizzazione politica, economica e sociale del Paese.” La Repubblica Italiana non ha mai fatto fronte a questo compito ne si è rivelata mai capace di rimuovere ostacoli per realizzare l’uguaglianza dei cittadini.
Occorre precisare, come già fatto da molti giuristi, che esiste un’eguaglianza formale e una sostanziale. Quella formale si esaurisce subito nella prima asserzione di “equità” davanti alla legge, cioè nel motto “La legge è uguale per tutti”, che fissa un’uguaglianza teorica, nei fatti non realizzata né realizzabile. Inevitabilmente, in tal caso l’uguaglianza si lega alla giustizia e quindi alla una parità di condizioni e di regole che dovrebbero essere comuni a tutti gli uomini e costituire il polo di riferimento di chi fa le leggi e di chi le fa applicare. Se esiste un’uguaglianza di partenza, nel momento della nascita e in quello della morte, ci sono poi, le nascite tra trine, merletti, calore, alimentazione e la fase post mortem, quella fatta di bare lussuose, di ghirlande, di tombe sfarzose e di memorie spesso motivate dal fatto di avere ereditato un nome o di avere ricoperto una carica importante, anche senza aver lasciato niente che potesse motivarne il ricordo. L’uguaglianza formale è subito cancellata o ricoperta dalla condizione sociale che, in rapporto alla ricchezza posseduta, determina spesso anche la disuguaglianza “di fatto” nei confronti della legge (basti per tutti il proverbio siciliano “Cu avi dinari e amicizia teni nculu la giustizia”).
E arriviamo al nocciolo della questione, a quella “eguaglianza sociale”, che dovrebbe passare attraverso un’”equa” distribuzione delle ricchezza: se, in un sistema economico l’ammontare è 100, la distribuzione “equa” del 100 ai cento componenti che ne fanno parte è di una unità per ogni componente, oppure, in un’alternativa “in-equa”, come adesso è nei fatti, di, 80 parti nelle mani di 20 persone e delle residue 20 parti nelle mani delle restanti 80 persone. E’ la vecchia statistica di “un pollo a testa”, quando c’è chi ne mangia dieci e chi nessuno.
Nel dirompere di idee nuove in seno alla Rivoluzione Francese nacque il “Manifesto degli Eguali”, dove alcuni rivoluzionari, come Babeuf e l’italiano Buonarroti, affermavano di “non potere ulteriormente permettere che la grande maggioranza degli uomini lavori e sudi al servizio e per il piacere di una piccola minoranza…..abbia infine termine questo scandalo… Sparite disgustose distinzioni tra ricchi e poveri, tra grandi e piccoli, tra padroni e servi, tra governanti e governati”. Di là dalle teorizzazioni dei primi socialisti, sino al “Manifesto” di Marx del 1848, il sogno del cosiddetto “Quarto stato”, il “proletariato”, è divenuto quello di una umanità in cui le ricchezze siano “equamente” distribuite, in cui la felicità di una sola persona sia condizione della felicità di tutti”.
A questo punto l’aequitas diventa “comunismo”, ovvero un sistema in cui a tutti sia distribuita la ricchezza, in parti uguali, a patto che non si tratti di una distribuzione passiva e parassitaria, ma di un incentivo costante a migliorare le condizioni di vita e la ricchezza dell’insieme di cui si è partecipi. E diventa anche giustizia, quella di Dike, la ninfa che ha una spada e tiene una bilancia i cui due piatti sono alla stessa altezza: di essa uno studioso latino di miti e leggende, Igino Astronomo, vissuto nel terzo secolo d.c , ci racconta che “visse ai tempi dell’ Età dell’oro degli uomini ed era il loro capo. A causa della sua integrità ed imparzialità fu denominata Giustizia ed a quel tempo nessuna Nazione straniera era impegnata nella guerra, nessuno ancora navigava sopra i mari, ma tutti si godevano le loro vite ché si preoccupano per i loro campi. Ma gli uomini che vennero dopo, cominciarono ad essere meno osservanti al dovere e più avidi, di modo che la Giustizia si accompagnò più raramente con gli uomini. Infine il male diventò sì estremo, durante l’Età del Bronzo, che Ella non poté resistere oltre; e volò tra le stelle » (Igino Astronomo De Astronomia II,25). La Giustizia, in un certo momento abbandona gli uomini, rendendosi conto di non poterli cambiare né governarli secondo i suoi nobili principi. Gli uomini, da parte loro non fanno nulla, neanche un passo, per rendere migliore la propria vita, non sono capaci di uscire dal loro egoismo, di ritenere gli altri “fratelli”, di salvaguardare il diritto alla vita di ognuno di essi. Anzi, nell’ultimo secolo, sembra essersi approfondito il solco tra ricchi e poveri, a vantaggio dei ricchi, diventai sempre più ricchi. E così troviamo che Salvini va predicando, anche a Palermo, il suo odio verso i migranti, trovando qualche centinaio di stupidotti disposti a seguirlo, mentre nello stesso giorno Papa Francesco va a far visita a un campo Rom. Odio e amore, le due solite forze che agitano l’uomo e lo spingono a costruire muri per recintare il proprio “io”, il proprio egoismo, il proprio “amor sui”, dove invece spesso affonda l’amore per l’altro e di allarga ogni giorno il campo della in-equità.
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