“La giustizia” per Fabrizio De Andrè

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Quello della giustizia è un tema ricorrente nelle canzoni di Fabrizio de Andrè. Lo troviamo, agli inizi, in Geordie, che viene condannato a morte per avere rubato sei cervi nel parco del re:

“nè il cuore degli inglesi nè lo scettro del re

Geordie potran salvare

anche se piangeranno con te

la legge non può cambiare”

Qui la legge è superiore addirittura alla stessa autorità del re.

La trasgressività di De Andrè compare in “Boccadirosa”, dove la bellezza travalica le umane regole della legge e tutti, considerato che

“spesso gli sbirri e i carabinieri

al proprio dovere vengono meno

ma non quando sono in alta uniforme

si precipitano alla stazione successiva per accogliere chi “portò l’amore nel paese”:

“persino il parroco che non disprezza

tra il miserere e un’estrema unzione-

il bene effimero della bellezza –

la vuole accanto in processione”

In una dimensione religiosa della giustizia, come in “Preghiera in gennaio”, scritta per Tenco, l’appello per il perdono ai suicidi è fatto al “Dio di misericordia”, forse il solo che può cambiare qualcosa per intercessione degli uomini. Scendendo sulla terra troviamo, nel “Recitativo” degli impiccati compreso nel cd “Tutti morimmo a stento” questa triste considerazione sulla giustizia che commina la pena di morte:

Giudici eletti, uomini di legge,

noi che danziam nei vostri sogni ancora

siamo l’umano desolato dregge

di chi morì con il nodo alla gola

Quanti innocenti all’orrenda agonia

votaste decidendone la sorte

e quanto giusta credete che sia

una sentenza che decreta morte?

Si potrebbe scorrere ancora da “Delitto di paese” a “La città vecchia” a “La ballata del Michè,”, dove la pietà, la considerazione che l’errore fa parte della stessa essenza umana sono l’unica possibile via per non lasciarsi rendere schiavi dalle gelide regole della giustizia.

La stessa pietà che ne “il pescatore” il vecchio, che è poi Dio dimostra attraverso “l’ombra di un sorriso” verso l’assassino che ha condiviso con lui il pane. “Che la pietà non vi sia di vergogna”

Ne “Il testamento di Tito” c’è un passaggio costante attraverso la giustizia degli uomini, con tutte le sue perversioni , attraverso i giudici che “lo sanno a memoria il diritto divino e scordano sempre il perdono”: è quella giustizia che, in nome delle sue regole non esita a uccidere anche il figlio di dio e ad assimilarlo a un comune ladro.

“Guardatela oggi questa legge di Dio

tre volte inchiodata sul legno:

guardate la fine di quel nazareno

e un ladro non muore di meno”

De Andrè raggiunge la punta più alta del suo rapporto con l’umana giustizia ne “Il gorilla”, dove un “giovane giudice” con la toga è violentato da un gorilla arrapato: una sorta di “contrappasso” per chi applica la giustizia con disinvoltura senza pensare che, al di là di ogni imputato c’è un uomo: Il giudice ha quello che si merita.

“Dirò soltanto che sul più bello

dello spiacevole e cupo dramma

piangeva il giudice come un vitello

negli intervalli gridava “mamma”

Gridava mamma come quel tale

cui un giorno prima, come ad un pollo,

con una sentenza un po’ originale

aveva fatto tagliare il collo.

E infine, per chi è immerso come in “Sogno numero due”, “nel ruolo più eccitante della legge, quello che non protegge: la parte del boia”, c’è un epitaffio finale rivolto all’imputato:

“Ascolta,

una volta un giudice come me

giudicò chi gli aveva dettato la legge:

prima cambiarono il giudice

e subito dopo la legge”.

Conclusione: non esiste un’idea platonica di giustizia, la giustizia in assoluto, la dea che ha la bilancia in mano con i due piatti perfettamente uguali: esiste la giustizia degli uomini con i suoi errori, con le interpretazioni che ne danno gli uomini, con le metamorfosi che essa subisce, nel tempo e in rapporto alle circostanze e con una particolare attenzione ai potenti che l’hanno in mano, la volgono a proprio uso e consumo e, quando si rivela per loro scomoda la cambiano. Ma già i Sofisti greci, Prodico, Trasimaco, Antifonte, tutto questo lo avevano intravisto.

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