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Fra’ Giuseppe Di Maggio, «Un profeta del ventesimo secolo»

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La vita e l’opera

Fra’ Giuseppe visse in un periodo storico (1897-1973) denso di avvenimenti: per quel che riguarda gli scritti giovanili, la partecipazione alla prima guerra mondiale, nella quale meritò una croce di bronzo al valor militare, i  suoi studi per conseguire la laurea di avvocato e le attività legate a questa professione, esercitata nello studio del grande giurista Scimonelli, le simpatie repubblicane e antifasciste, rimandiamo alla biografia pubblicata dal prof. Cipolla nel 1995 (indicata come Biog.)

Il 1926 è un anno fondamentale della sua vita: dopo un tormentato percorso interiore, attraversato da alcuni incontri con Padre Pio, con mons. Volpi, padre spirituale di Gemma Galgani (il quale gli disse: “non sono un profeta, ma ti predico che sarai martirizzato dai preti”) e con altri religiosi di elevata spiritualità, egli matura la sua decisione di indossare il saio e organizza tale gesto, il 23 luglio 1927,  in maniera alquanto teatrale, cogliendo l’occasione di un invito fattogli dall’arciprete di Partinico Cataldo a fare una conferenza su San Francesco, nel settimo centenario della morte, nella Chiesa del Carmine: “Qui finisce la storia dell’avvocato Di Maggio e comincia quella di Fra Giuseppe” (Biog. pag 44). Quest’ultima era stata profetizzata da Padre Pio, il quale nel suo primo incontro gli aveva detto: “Scrivi prima il tuo dramma e poi finirai col saio” e, nel secondo incontro, nel Natale del 1926: “Non entrare in convento”. “Giuseppe Di Maggio si fece frate da sé e non entrò in nessuno istituto religioso, come quello dei Salesiani di Catania, indicatogli con indifferenza e con fastidio dall’arcivescovo di Monreale mons. Filippi.” (Biog. pag. 44). Nello spazio di pochi mesi, grazie alla cessione dell’ex convento dei Cappuccini, fattagli dal podestà di Partinico Maellare, il frate riesce a dar vita al “Ricovero delle cinque piaghe”, dove, negli anni successivi, saranno ospitati sino a 50 poveri: “L’avv. Di Maggio, oggi Fra Giuseppe, quale novello san Francesco, ha saputo svegliare in questa terra i santi principi di carità cristiana, di amore e di sollievo al sofferente”, scrive lo stesso podestà, nella delibera di assegnazione del locale.

“Andavano a visitarlo ogni sera più di 200 persone e tutti portavano qualcosa” (Biog. pag.63).

Facciamo un salto al 1939, anno in cui viene portata a termine una manovra a tenaglia di cui sono protagonisti l’arcivescovo di Monreale Filippi, l’arciprete di Partinico Cataldo e le autorità fasciste locali. Sul filofascismo di Cataldo basti una lettera del sac. partinicese Domenico Passannanti, che lo descrive “suo strenuo difensore, sino all’imprudenza, da compromettersi di fronte al popolo, da venir meno all’ufficio spirituale affidatogli dalla chiesa, profanando sinanco il pergamo della verità” (Biog. pag. 76). Altrettanto dicasi del Filippi, sulla cui fedeltà al fascismo e sulle cui amicizie con ambienti mafiosi si sofferma Giuseppe Schirò nel libro Monreale. Territorio, popolo e prelati dai Normanni ad oggi (ed. Augustinus Palermo 1984, citato dallo stesso Cipolla), il quale, (Biog pag.139) riporta una testimonianza secondo cui Filippi avrebbe ospitato il bandito Giuliano in una sua villa tra Giacalone e Borgetto e avrebbe avuto in deposito da Giuliano 20 milioni. (vedasi anche G.C. Marino Antimafia come rivoluzione culturale Ed. Rinascita Siciliana, Palermo 1993, pag.121). Le manovre di Cataldo, condotte ostinatamente negli anni, secondo un disegno perverso e degno di ben altra causa, sono tante e tali da potere offrire elementi per un giallo. Intrighi, dispetti, bambinate, lettere piene di malevolenze e cattiverie, rivelano una mentalità intransigente che imponeva a tutto il clero e ai fedeli la sua persona e il rispetto dei suoi ordini. Proprio per le sue intemperanze, (legate anche a non dimostrate accuse di molestie sessuali), Cataldo sarà, per qualche tempo rimosso nel 1933 dalla sua carica. È doveroso dire che un’altra personalità locale di alto valore religioso, Pina Suriano, visse la rimozione di Cataldo come un atto ingiusto che apportava dolore, lacrime e lutto al paese. Il canonico Cataldo comunque ritorna in campo e al suo posto, nel 1935, per far vendetta dei suoi nemici e sbarazzarsi degli ostacoli che si frappongono ai suoi disegni, in quello che il sacerdote Polizzi definisce “l’inferno di Partinico”. In tutto ciò Fra Giuseppe è un corpo estraneo e inerme che rimane stritolato: il 18 dicembre del 1939 il suo Ricovero è assediato dalle forze di polizia, le suore sono sottoposte a selvaggi interrogatori, secondo i tipici sistemi fascisti, minacce, spintoni, ceffoni e percosse, al punto che qualcuna di esse è costretta a firmare, senza sapere cosa firmi, una dichiarazione in cui si dice che Fra Giuseppe era andato una notte a bussare alla sua porta.

Fra Giuseppe viene condotto all’Ucciardone. Tra le accuse anche quella di appropriarsi dei fondi per i poveri onde mantenere e far servire il figlio Paolo. Il tutto è gestito non da un regolare tribunale, davanti al quale ogni accusa sarebbe caduta, ma dalla Commissione provinciale per il confinio di polizia, che condanna fra Giuseppe, dopo averlo obbligato a togliere il saio, a indossare un vestito e a calzare le scarpe, a cinque anni di confinio per “attività antisociali”, malgrado una serie di interventi autorevoli in suo favore. “Oltre l’intrigo, oltre il complotto vendicativo ordito da padre Cataldo, (Biog pag.134), (ma anche dal Filippi, dal podestà Savarino e dal “braccio secolare” dello stato, rappresentato dal commissario di P.S. Cutrì), anche il pettegolezzo paesano e la diffamazione, secondo la quale il frate era un pazzo, un pervertito o un mago che andava in giro indossando abusivamente un abito religioso, insomma un individuo pericoloso. Comincia l’odissea di fra Giuseppe, da Agrigento, a Lampedusa, a Ustica tra ordini stupidi, quali il divieto di indossare il saio e l’obbligo di calzare le scarpe (“togliendomi il saio mi hanno tolto il cuore” scrive a Lombardi), censure alle lettere, trasferimenti repentini: le lettere pubblicate nel volume, (unite alla autobiografia Un profeta del 20° secolo, pubblicata nel 1989) ci descrivono minuziosamente i vari passaggi, le speranze, le illusioni, le delusioni, i momenti di pace, le tribolazioni, la guerra.

Nella primavera del 1942 fra Giuseppe, grazie alla mediazione dei suoi amici e sostenitori, viene liberato per intervento della prefettura di Trapani, ma con grande rabbia della congrega dei suoi nemici palermitani, dall’arciprete all’arcivescovo, dal podestà, al prefetto. Ricominciano le ritorsioni: l’arcivescovo, che stava provvedendo a frodare 500.000 lire alla vedova Cannizzo, (Bio. pag.61) decreta subito l’esclusione dalla sacra comunione dell’avv. Di Maggio, in pratica la scomunica, mentre “il malcapitato sac. Luigi Minore, che, ormai semistolido, era andato a salutare fra Giuseppe nel giorno del suo arrivo” (Bio. pag. 162) viene sospeso a divinis per 10 giorni. Solite diffide a non indossare l’abito monacale, solite resistenze di fra Giuseppe, denunce e un processo, che stavolta si conclude con l’assoluzione del frate (25 agosto 1943). Intanto arrivano gli Alleati che il 22 luglio del ’43 entrano a Partinico. Fra Giuseppe provvede subito a rioccupare i suoi locali, trasformati in magazzini militari, (atto che faceva dire al conterraneo sacerdote Lo Jacono: “abbiamo avuto due giorni di perfetto comunismo”).  È il momento più alto della popolarità del frate, che viene acclamato dalla folla come sindaco, ma che alla fine accetta le mansioni di vicesindaco. Durerà soltanto per alcuni mesi, perché a fra Giuseppe sta più a cuore riprendere la sua attività caritativa. Sistemato il locale di Partinico, si volge a Palermo, dove dà vita all’Orfanotrofio delle Cinque Piaghe alla Favorita: “Quest’ultimo periodo dell’attività caritativa di frate Giuseppe presenta analogie con quello precedente. Esso si svolge in un lasso di tempo più breve, e cioè i cinque anni che vanno dall’estate del 1943 all’autunno del 1948” (Biog. pag. 172). Accanto al mutato atteggiamento dell’arcivescovo, si registra anche la collaborazione iniziale del sindaco e del consiglio comunale di Palermo, che stanziano alcune somme per il ripristino e il sostentamento dell’orfanotrofio. Intanto egli riesce a dare alle stampe, a sue spese Lumen vitae cioè una serie di pensieri religiosi ai quali, dopo una strana serie di rimpalli, era stato negato l’imprimatur, sia dal vescovo di Monreale, che da quello di Palermo. Dopo le elezioni del 1948 e la vittoria della D.C. tutto cambia anche per fra Giuseppe: davanti a lui due nuovi nemici, simbolo della solita alleanza stato-chiesa: il cardinale di Palermo Ruffini e il prefetto Vicari, il primo strenuo difensore del potere democristiano, in ogni campo e ad ogni costo, dalla cultura, al lavoro, all’assistenza, per arginare l’apocalisse del  comunismo, il secondo, come dice stesso fra Giuseppe, un fascista rimasto tale anche dopo la fine del fascismo.

Ruffini ottiene dal comune la revoca delle casermette della Favorita a Fra Giuseppe con la volontà di installarvi la Pia Opera Don Orione: l’intenzione è quella di sostituire la carità con la beneficenza: quest’ultima è sotto il suo controllo e, attraverso i fondi che il potere politico destina all’assistenzialismo costituisce un buon serbatoio di voti per la Democrazia Cristiana: Così un giornale dell’epoca descrive il triste evento: «Sarà triste per i ragazzi lasciare la Favorita per tornare nelle strade e dentro i portoni, né potranno andare dal sig. Cardinale: troppo lucide le scale del suo palazzo per così umili piedi e poi l’augusto principe di Santa Romana Chiesa ha troppe belle mani per arruffare capelli non pettinati e parla anche latino e in questa antica lingua dirà severo al cordigliero Giuseppe, già condannato per delitto contro la società: “Non possum assentire che i fanciulli vengano a te”». (articolo di Mario Farinella in La voce della Sicilia 26 febbraio 1948, riportato in Bio. pag. 185)

La manovra si serve del sindaco qualunquista di Palermo Gennaro Patricolo, che il 20-11-1947 intima a fra Giuseppe lo sfratto per occupazione abusiva e, addirittura, il risarcimento dei danni causati per la detenzione dei locali. Sono cento i bambini che sono stati tolti dalla strada, salvati dalla fame, dall’accattonaggio, dalla delinquenza, a fronte di una spesa esigua per il Comune, se rapportata con i milioni erogati alle altre istituzioni di beneficenza. Ma, ancora una volta, fra Giuseppe è un corpo estraneo, da far fuori: a questo punto si stilano falsi rapporti sulle condizioni sanitarie e igieniche dei locali, ispezioni in cui viene reperito, ahimè, un materasso di crine, si fanno osservazioni negative sull’alimentazione e sull’organizzazione interna, si insinua il sospetto che le rette pagate non siano interamente spese a favore degli assistiti. Allorché la Pia Opera Don Orione non accetta, i locali vengono destinati alla Società Ippica Siciliana: altri locali dello stesso immobile vengono destinati a un’industria della seta, la Ramiè con una nuova ordinanza del 28 giugno 1948. La mossa decisiva che segna la chiusura della partita a svantaggio di fra Giuseppe, avviene il 20 ottobre 1948, a seguito di un rastrellamento, a Partinico, di centinaia di uomini, con mitragliate e lanci di bombe a mano, nell’ambito delle violente attività di repressione del banditismo, di cui spesso facevano le spese gli inermi cittadini. I fatti si concludono con la morte di un agricoltore, tal Gaspare Emma, vittima delle sevizie e della violenza poliziesca. In quella circostanza una delegazione di cittadini di Partinico, tra i quali viene a trovarsi fra Giuseppe, si reca, per protestare, dal prefetto Vicari: “Il vanesio prefetto sapeva, egli stesso, seminare terrore, irritazione, sgomento, nel Consiglio Comunale di Partinico, che aveva osato formulare una protesta, a suo dire, contro le forze dell’ordine” (Biog. pag. 205). Vicari, con le sue sprezzanti risposte, riesce a provocare una infuriata risposta di fra Giuseppe che, (novello fra Cristoforo), dice: “C’è del marcio nelle forze di polizia”. E ciò segna  la sua fine. I rimanenti passaggi sono infatti la spietata risposta del prefetto, che provvede, con insolita tempestività, a chiudere tutti i varchi che, sino a quel momento sono rimasti aperti nell’attività caritativa del frate. Egli viene ritenuto “un elemento noto per la sua equivoca condotta”, minacciato di arresto e riproposto per il confinio sotto l’accusa di “sospetto protettore dei banditi” (Biog. pag. 208).

Il 22 novembre 1948 vengono requisiti i locali di Palermo e, due giorni dopo si dà il via a una oscena deportazione, nei camion, dove vengono trascinati di peso, degli orfanelli ricoverati: “Vale più un cavallo che i cento bambini di frate Giuseppe alla Favorita” dice il presidente della Società Ippica destinataria dei locali. I momenti di questa vergognosa giornata costituiscono una delle pagine più patetiche dell’autobiografia di fra Giuseppe (pag. 371-375) che conclude tristemente: “La giustizia umana ha un limite quando ha da giudicare il forte ed è senza limite quando ha da giudicare il debole”. Resiste ancora la struttura di Partinico dove, lo spietato prefetto, qualche settimana dopo ordina la requisizione dei locali per assegnarli ai carabinieri del Corpo Repressione Banditismo, lasciando intravedere all’esterrefatto frate la possibilità di una restituzione solo dopo la cattura di Giuliano. Quella restituzione, malgrado l’interessamento di Santi Savarino non avverrà mai: con l’appoggio del card. Ruffini dell’arcivescovo di Monreale mons. Filippi, dei Gesuiti, del sindaco Mancuso, del ministro Scelba e del prefetto Vicari, l’8 ottobre 1950 sarà istituito l’Ente morale Casa del Fanciullo.

E fra Giuseppe? Stroncato dalle amare esperienze dei suoi scontri con le istituzioni, continuerà a vivere per altri ventidue anni la sua vita solitaria, da eremita, nel ritiro di Giambruno, a scrivere le sue passate esperienze, a corrispondere con qualche amico, senza trovare più la voglia di intervenire all’interno di una società ormai radicalmente cambiata, dove iniziative come la sua rischiavano di essere fuori dal tempo e dalla storia.

L’ultima foto insieme a Cola Geraci  rappresenta idealmente l’incontro tra due culture profondamente diverse, tre le quali il fanatismo, l’intolleranza, le barriere ideologiche e la voglia di potere delle classi dominanti erano riusciti a costruire scomuniche e barriere insormontabili.

Qualcuno potrebbe obiettare che le decisioni e i gesti di chi allora deteneva il potere vanno lette in rapporto al momento storico che li ha determinati e che, in rapporto a quel momento erano atti normali e non così abnormi come possono apparire a una cultura profondamente cambiata, come la nostra: a questo punto dovremmo chiarirci se i valori e le azioni hanno una funzione relativa nel tempo o se esistono valori e scelte che appartengono indissolubilmente alla stessa natura umana. In Fra Giuseppe sono presenti alcuni di questi valori che certo non appartennero ad altre persone vissute nello stesso tempo, ma che costituiscono il corpo centrale  dei comportamenti, cui si ispira la struttura di ogni etica:

  1. L’amore, ovvero la capacità di sentire tutti gli uomini come fratelli, di non individuare e circoscrivere nemici, di incontrarsi con il resto del mondo per costruire insieme un progetto sociale di assistenza e convivenza reciproca: chiaro in ciò il rifiuto della lotta di classe e il richiamo alle posizioni di rapporto biunivoco tra lavoratori e padroni che la Rerum Novarum (1892) indicava come auspicabile soluzione dei conflitti sociali. Legati all’amore sono tutta una serie di sentimenti collaterali, il perdono, la rassegnazione, l’accettazione della sventura come strumento di prova e di fortificazione, il rifiuto dell’odio nei confronti dei propri persecutori, il in base ai quali Fra Giuseppe ci appare come un erede della filosofia stoica.
  2. La scelta del dialogo rispetto a quella della contrapposizione e dell’intransigenza. Fra Giuseppe riesce a stabilire un rapporto umano e dialogico con i suoi persecutori, oltre che con quelli che sostengono scelte politiche e ideologiche diverse dalle sue: tra i suoi sostenitori troviamo fascisti, come il podestà Maellare, o come l’on. Caradonna, socialisti come il sindaco di Palermo Gullo, comunisti come Li Causi e Montalbano, teologi come Carmelo Ottaviano, storici come il Tilgher: la sua apertura mentale, pur non escludendo proprie prese di posizione e distanze, anticipa notevolmente le direttive interculturali del Concilio Vaticano Secondo e l’ecumenismo della £Populorum progressio£ ed acquista particolare significato oggi, in un momento in cui sembrano riemergere, specie nel campo religioso, arroccamenti, intransigenze e pretese di essere depositari dell’unica verità possibile.
  3. Il rifiuto della politica: fra Giuseppe scrive: “Soffro immensamente pensando che dovrò recarmi a votare, e specialmente per le suore… Il papa ha le sue ottime ragioni umane per richiedere, persino alle suore di clausura il voto politico, e bisogna ubbidire: io ho le mie ragioni divine per chiedere che le sorti della Chiesa non sono da affidarsi a Mattarella o a qualunque altro politicante cristiano, ma solo alle virtù cristiane e religiose dei sacerdoti, dei religiosi e delle monache. Spero che il Signore farà contento il papa e farà contento anche me… Avverrà certo lo scompiglio se nelle comunità religiose penetrerà il demone della politica”. Egli chiede al Vescovo di essere dispensato dal voto e quando questi gli dice di essere obbligato a votare, sulla scheda scrive: “Viva la Chiesa di Gesù Cristo santa e immortale”. Voto nullo, ma voto di fede, egli scrive a Lombardi nella lettera dell’1-6-1948 (Carteggio. pag. 347), aggiungendo: “Se Gesù Cristo aprì la bocca per parlare di ricchezza e di povertà, è certo che riserbò solo per i ricchi le parole dure e pesanti di minacce eterne. Mi pare che si sia troppo gridato contro il lavoratore che reclama il suo diritto di vita. La grossa borghesia accusa di materialismo i poveri che non possono sfamarsi; ma il suo materialismo estremo e il suo egoismo crudele è cosa lecita: Ormai l’odio tra il capitale e il lavoro è quasi tutto organizzato, è raccolto in due formidabili bombe: se la chiesa non parteggiasse altro che per la giustizia, potrebbe, in questo momento, evitare i gravi danni dello scoppio. Ma per causa di troppa paura, e forse di interessi umani, credo che siamo andati oltre i limiti, e avremo ciò che ci meritiamo” (C. pag. 348).

Ancor più chiaro, in una precedente lettera, (25-7-46) la condanna del rapporto religione-politica: “tutto quello che alcuni preti e prelati han fatto per fare risultare la lista dei democristiani, è stato per me un grave errore che ha pregiudicato la Chiesa. Io parlo liberamente e sono stimato e ascoltato da tutti i diversi partiti perché parlo sempre da uomo al di fuori e perciò al di sopra di tutti i partiti. La passione di parte è la più tirannica di ogni passione umana, e perciò la Chiesa non dovrebbe suscitarla”. (C. pag. 332).

La sua distanza dalla politica lo porta a modificare valutazioni e giudizi nel tempo: al momento del referendum egli, malgrado il suo passato di repubblicano, scrive: “A me pare che, nel presente momento, la Monarchia potrà evitare spargimento di sangue fraterno. La Repubblica presuppone un popolo politicamente, civilmente e moralmente cosciente; ma oggi il popolo italiano non lo mostra e non lo è… oggi, in Italia, penso che la Repubblica potrebbe avere tutto un sapore di anarchia” (C. pag. 331). È probabile che, dall’angolo di visuale della Sicilia, a fra Giuseppe sfuggisse l’alto grado di maturità politica che in altri posti gli italiani avevano conseguito, grazie alla Resistenza.

E, nella stessa lettera, malgrado la sua scelta di condanna radicale del fascismo, egli dimostra la sua capacità di non ragionare per schemi fissi: “Penso che Mussolini non è proprio morto, e il fascismo ha vita pensare diversamente e agire facendo a meno dell’uno e dell’altro, è un grave errore e mi pare che sia simile a un uomo stolto che, per il solo fatto che il padre è lontano, voglia credersi ere dei suoi beni e disporne la vendita. L’avere negato con ogni mezzo il bene che c’era nel fascismo e nel suo Duce, e soprattutto non avendo saputo a posto di quel bene negato, porre altro bene, ma solo male, ha fatto pensare e meditare non poche menti di fascisti soprattutto giovani” (C. pag. 332). Concetto ribadito all’indomani della fine di Mussolini: “È certo stato un uomo d’eccezione di cui si può dire tanto male, ma anche tanto bene. La storia metterà il suo nome al suo posto. Ho avuto  un senso di pena per lui: avrebbe potuto fare tanto bene se non avesse perduto la testa nei trionfi” (C. pag. 322).

Gli scritti di Fra Giuseppe danno l’impressione di essere piombati in pieno medioevo: medievale sembra la sua figura così vicina a quella di San Francesco, sia nelle scelte di vita che in quelle religiose: in alcuni aspetti Fra Giuseppe, nella sua scelta di trascendenza e di spiritualità, nella sua visione di un Dio onnipresente, nel suo persistente rifugiarsi nell’agostiniana città di Dio, nella risoluzione del male da una parte come espiazione, dall’altra come prova data da Dio per un rafforzamento della fede e dell’amore in lui, sembra più essere vicino a Bonaventura da Bagnoreggio che ad Agostino: nel vescovo d’Ippona il credo ut intellegam cerca costantemente di coniugarsi con l’intellego ut credam, la scelta della fede, come abbandono in Dio, non vuol dire rinuncia alla tormentata ricerca di spiegazioni razionali: Dio è l’approdo finale di un percorso d’inquietudine e di ricerca: fecisti nos ad te, Domine, et inquietum est cor nostrum donec ac requiescat in te. In Bonaventura tutto questo si risolve in una scelta ben precisa: credo ut intellegam, la fede precede la ragione e ne costituisce la via maestra. 

Fra Giuseppe è sulla stessa linea: egli ha risolto nella certezza della fede tutti i possibili dubbi che gli provengono dalla ragione: il male, il tempo, la vita, la libertà di scelta, il dolore e le sue faville, le idee, gli eventi,le difficoltà, le ostilità, persino la guerra tutto confluisce, si scioglie e si risolve nella “mistica fusione con Dio” (C. pag.54 ), responsabile, artefice e destinazione finale di tutto quel che succede e che è. Esse, nosse, velle, le tre certezze agostiniane conseguenti al superamento del dubbio, sono per fra Giuseppe, prima che proprietà umane, espressioni divine. Da qui anche la condanna  della filosofia, come emerge in alcuni passaggi delle lettere: “Benedetti filosofi!, complicate tutte le cose, anche le notizie più innocenti e ingenue” ( C .pag. 276).

Stroncato dalle drammatiche vicende che lo videro protagonista e vittima, guardato con sospetto dalla chiesa ufficiale e dai sostenitori dell’ortodossia, osteggiato da coloro che ritengono indispensabile la struttura piramidale della Chiesa, con il pastore alla guida e le pecore al seguito, condannato da chi è convinto che essere cristiani significa far parte di una “ecclesia” che ha le sue rigide regole gerarchiche e che chi si pone al di là di queste regole è un eretico, Fra Giuseppe visse per altri vent’anni in silenzio, aiutato e assistito da amici, a contatto con la povera gente, sempre con una parola dolce e consolatoria per tutti quelli che lo incontravano e lo accostavano. Possiamo circoscriverlo in questa sua frase: “I giusti tramontano come il sole, il quale ha fecondato la terra, ha illuminato le case e riscaldato il sole dell’uomo. Al fine, stanco, discende con lentezza nell’oceano per morire” (Lumen vitae, pag. 6).

Bibliografia
  • Suor Maria Illuminata Ancona: Dalla toga al saio. Partinico 1974;
  • G. Cipolla (a cura): Frate Giuseppe Di Maggio, Le istituzioni caritative. Atti del convegno tenutosi a Partinico il 16 marzo 1990, pubblicati nel 1992 dal Centro Jatino di Studi e Promozione Sociale Nicolò Barbato;
  • Cipolla: Fra Giuseppe Di Maggio, uomo libero, apostolo della carità – biografia pubblicata dal Centro Jatino di Studi e Promozione sociale di Partinico nel 1995;
  • Domenico Passannati J (a cura): Don Domenico Passannanti e la chiesa a Partinico negli anni del fascismo – pubblicato a Partinico nel 1995, a cura del Centro Jatino di Studi e Promozione sociale;
  • Cipolla (a cura): Le faville del dolore – editore Salvatore Sciascia, Caltanissetta 1997;
  • G. Cipolla: Giuseppe Di Maggio e Antonio Lombardi. L’amicizia, la filosofia e la politica. Note a margine del carteggio – Editore Salvatore Sciascia – Caltanissetta 2007.
Scritti di Fra Giuseppe Di Maggio
  • Lumen vitae, Tipografia Gaspare Puccio, Partinico 1946;
  • Il grano dei colli, Tipografia Gaspare Puccio, Partinico 1948;
  • Un profeta del ventesimo secolo, autobiografia stampata dalla Italgrafica di Palermo nel 1989.
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Salvo Vitale

Salvo Vitale è stato un compagno di lotte di Peppino Impastato, con il quale ha condiviso un percorso politico e di impegno sociale che ha portato entrambi ad opporsi a Cosa Nostra, nella Cinisi governata da Tano Badalamenti, il boss legato alla Cupola guidata negli anni Settanta da Stefano Bontate.

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