Eluana Englaro, (2009) 17 anni di accanimento terapeutico, Piergiorgio Welby, (2006) che volle morire, ma cui furono negati i funerali, non invece a Mario Cal, (2012) amministratore del San Raffaele, la cui morte venne definita “un suicidio da buon cristiano”, Pietro D’Amico (2013) un magistrato cui venne diagnosticata una malattia incurabile che, dopo la sua morte si scoprì non essere tale, Lucio Magri (2011), un addio senza clamore in una clinica svizzera dove i medici, se il paziente è lucido, gli chiedono di essere lui, con le sue mani, ad alzare il bicchiere e bere la pozione che procura “la morte dolce”, e ancora Brittany Maynard, 29 anni, un glioblastoma di quarto livello, ovvero un cancro incurabile al cervello: morta con il sorriso, con la sua musica, con i suoi affetti attorno. Ultimo caso quello di dg Fabi una vita diventata intollerabile dopo un tragico incidente. Sono tre al giorno gli italiani che chiedono “la morte dolce” in Svizzera, dove è consentita dal 1942, ed è preceduta da una severa selezione ad opera di medici e psicologi. In Italia ogni volta che qualcuno sceglie di morire, si ripropone il problema di stabilire se ogni soggetto umano è padrone della propria vita: l’alternativa è quella secondo cui padrone della vita è solo Dio, il quale è libero di darla o di toglierla a suo piacimento (più elegantemente, “secondo i suoi imperscrutabili disegni”, al di là della volontà del singolo o anche contro di essa). In tal senso Dio diventa colui che accende e spegne l’interruttore e, al momento della morte, ha lo stesso ruolo di Atropo, l’arpia che tagliava il filo della vita. Pertanto gli atti della morte e della nascita diventano prerogative di Dio, un’identificazione con la sua stessa figura di padrone della vita: in caso di morte violenta è difficile spiegare se Dio è all’interno della volontà di colui che spara la pallottola omicida o se è la causa prima di un incidente mortale: in ogni caso il dio che accende la scintilla della vita nell’universo, ma anche nell’utero, è lo stesso dio che la spegne. Nel caso del suicidio è ipotizzabile un intervento di Dio nella decisione del suicida, il che non dovrebbe comportarne la condanna: oppure il suicidio è l’unico caso in cui la scelta di essere padrone della propria vita, rivendicata dall’uomo, è l’usurpazione umana di una prerogativa divina. Deve essere per questo che i mafiosi uccidono con tanta facilità: si sentono padroni della vita degli altri, rivendicano la prerogativa di vivere e far vivere solo se loro sono d’accordo. Si sentono come Dio.
Qualche anno fa il cardinale di Torino Poletto, in risposta al governatore del Piemonte Bresso, ha posto, di rimando, un altro connesso problema, ovvero se in caso di discordanza tra la legge di Dio e quella degli uomini, si debba seguire la legge divina, anche a costo di andare contro le leggi umane. E qual è la legge divina? Mosè la scrisse sulle tavole di pietra sotto dettatura. E per quello che non c’è scritto? L’esistenza di una legge morale divina comporta un suo legislatore e interprete che il cattolico identifica nel papa, vicario di Dio, con la prerogativa dell’infallibilità, enunciata come dogma solo nel 1854. E’ ovvio pertanto che tutto è connesso alla scelta di credere che Dio non esiste o che invece egli ci sia: il non credente risolve subito il problema e individua la risposta nella scelta di responsabilità affidata solo all’uomo e al rispetto delle leggi, a meno che queste non violino gli elementari principi della convivenza e siano imposte a vantaggio dei più forti. Sul lato del credente, si intravedono invece posizioni diverse:
-Prima posizione: Dio mi ha dato la vita e io sono libero di farne ciò che voglio, anche di togliermela, perché ne sono il padrone o il depositario: se la vita è paragonabile al “talento” della parabola, che io ho l’obbligo di far fruttare, il tutto si sposta nell’etica calvinista, secondo la quale la riuscita economica nella vita è la manifestazione della benevolenza di Dio nei miei confronti, ovvero che “il riuscito”, l’uomo diventato ricco è il predestinato alla salvezza. In tal senso si legge anche il problema del fallimento o dell’eventuale suicidio, la cui scelta personale è contestualizzata alla predestinazione divina, anche se è una scelta determinata da un apparente libero arbitrio. Quindi è teoricamente esclusa la condanna del suicidio o dell’eutanasia.
-Seconda posizione: l’intimismo protestante luterano esclude l’immenso apparato di mediazione tra Dio e l’uomo, ricoperto dall’istituzione ecclesiastica, e riconduce tale rapporto in una sfera personale nella quale l’individuazione dei principi etici comportamentali divini o presunti tali diventa, una scelta soggettiva ispirata dall’intensità del rapporto con Dio, rispetto al quale il rapporto con l’istituzione civile, si coniuga con il compito di regolamentare la propria vita con la vita degli altri e con le scelte di chi detiene il potere. Anche in tal senso la legge umana è espressione della legge divina, e la scelta di padronanza della propria vita identifica la propria decisione con quella divina.
-Terza posizione: il fatalismo è la versione islamica della predestinazione: tutto succede in quanto volontà di Allah che realizza se stesso e i suoi disegni attraverso di noi, tutto è scritto nel grande libro del destino e la volontà dell’uomo è una scintilla della stessa volontà divina alla quale è necessario abbandonarsi (islam) per ritrovare identità e dignità. In tal senso il sacrificio della propria vita come immolazione, (il kamikaze), con il fine di contribuire al trionfo di Allah e del Profeta e alla sconfitta degli infedeli, è la strada maestra per godere dei doni ultraterreni dell’Eden: il fanatismo si incrocia con disegni politici di cui sono esecutori i depositari della voce del Profeta, gli ayatollah, i sultani, gli sceicchi, gli imam, i talebani e il sistema di governo si configura come istituzione religiosa al limite del fanatismo. La considerazione della vita come dono divino di cui avere rispetto diventa trascurabile davanti a una prospettiva al cui servizio e al cui trionfo ognuno di noi è pre-destinato.
-Quarta posizione: i detentori del potere religioso, dagli sciamani ai preti cattolici, poiché Dio è padrone della vita e poiché loro si definiscono i depositari della volontà di Dio, ritengono di essere, per concessione divina, che essi stessi si attribuiscono, padroni della vita degli altri e di agitare il fantasma della legge divina, della quale ritengono di essere gli unici lettori, interpreti ed esecutori, come quello di unica legge possibile o in ogni caso prevalente, rispetto alla precarietà e all’arbitrarietà delle umane leggi, che di quella divina sono solo una contaminazione. Da ciò nascono tutte le difese e le condanne nei confronti delle varie posizioni che riguardano la vita, la sua riproduzione attraverso l’istituzione del matrimonio e della famiglia, la sua gestione e gli strumenti per generarla, mantenerla o toglierla, come la pena di morte, il suicidio, l’aborto o l’eutanasia.
La posizione non è priva di contraddizioni:
a) se la morte è decisa da Dio, l’uomo non dovrebbe nemmeno curarsi, ma attendere rassegnato questa decisione: la cura, la terapia è già un andar contro la decisione divina. Se poi questa cura comprende in qualche caso l’alimentazione forzata, la trasfusione o il mantenimento in vita attraverso sistemi artificiali, l’intervento umano è ancora più condannabile. Fermare le macchine dovrebbe voler dire affidare definitivamente a Dio la decisione se far vivere in modo vegetale un corpo umano o se accoglierlo là dove inizia un’altra vita certamente più ricca di soddisfazioni;
b) dovrebbe essere bandita dalla mente di ogni cristiano l’idea che l’uomo possa in alcun modo dare la morte, attraverso la condanna radicale della guerra, della pena di morte ecc.: in realtà, escludendo le messe dei cappellani militari prima, durante e dopo la guerra, anche nelle situazioni di maggior pacifismo, da San Tommaso a Woytila è stato riconosciuto che possono esistere “guerre giuste” e che l’uomo che subisce violenza ha diritto di difendersi. E Dio, in questo caso che fa? Sta a guardare o era distratto, come ad Auschwitz o, come, da parte opposta, a Gaza?; chi difende le vite dei vinti dalle prepotenze dei vincitori?
c) Se l’uso della tecnologia è accettato e giustificato come strumento per preservare e difendere la vita, perché viene bloccato o biasimato come strumento per diffonderla e migliorarla, attraverso la condanna delle ricerche della genetica moderna, specie quella sulle cellule staminali o sulla fecondazione artificiale?
Insomma, urge chiarire se c’è un Dio che interviene quando lo dicono i preti e gli integralisti religiosi, a costo di costringere ad accettare incredibili sofferenze per sé e per le persone vicine, situazioni che non riescono a essere immaginate da chi non le vive, e se c’è un altro Dio che concede agli uomini di intervenire per rimediare ai danni nei quali, per volontà dello stesso Dio essi sono precipitati. In realtà il problema si avvita nella contraddizione irrisolta del Cristianesimo, che è quella del libero o del servo arbitrio, in rapporto all’onniscienza divina, alla sua onnipotenza o alla provvidenzialità del suo disegno: se l’uomo è libero nella sua azione, è dalle sue scelte che è possibile la sua eventuale salvezza e condanna: sulla bontà di tali scelte dovrebbe, in sede di giudizio finale, essere giudice solo Dio. Se non è libero, perché il suo destino è già deciso e conosciuto da Dio onnisciente e onnipotente, l’eticità della sua azione diventa un problema che va oltre i giudizi umani e le umane condanne: né più né meno che il problema di Giuda che dice a Dio: se avevi stabilito dall’inizio che io dovessi avere il ruolo del traditore, che colpa ne ho io? E poi, è possibile che Dio onnipotente e onnisciente possa cambiare ciò che egli già sa e che ha deciso? Se no, com’è logico, egli non è onnipotente, c’è qualcosa che non può fare e la preghiera come richiesta per ottenere qualcosa è un atto inutile.
Ci si potrebbe fermare davanti a queste elementari riflessioni, per mandare a quel paese gli eserciti di sapienti che pretendono di stabilire, dall’alto della loro presunzione, di essere “voce di Dio”, di decidere e pontificare sulla vita degli altri: e invece bisogna prendere atto che l’Italia è rimasto uno dei paesi più integralisti del pianeta, con pletore di organizzazioni che, attraverso la loro potenza economica e la loro capacità di produrre consenso politico, riescono a pilotare le scelte dei governi senza che nessuno, per ovvi motivi elettorali, osi contrapporsi o fermarli. Certi passaggi sui matrimoni gay, sulle unioni di fatto, sul crocifisso nelle aule, in Italia suscitano levate di scudi e fanatiche crociate strumentalizzate da forti connotazioni politiche. E così succede che il Vaticano annuncia disinvoltamente di non volere riconoscere più le leggi dello stato italiano, alcune delle quali definite immorali, mentre, da parte del governo italiano, nessuno obietta che anche il Concordato è una legge dello stato italiano e che se non riconosciuta, va abolita. In diverse sentenze la Magistratura, ha riconosciuto legittimo il diritto di morire in santa pace quando non c’è più nulla da fare ma sono spuntate altre proposte e richieste di legge per regolamentare la questione, con una serie di “distinguo” studiati per rendere difficile, se non impraticabile la decisione, come nel caso dell’aborto.
Il dopo-morte è gestito con molta elasticità, in rapporto ai ceti sociali di appartenenza: se una volta ai suicidi era negata la messa in chiesa e il seppellimento “in terra consacrata”, oggi si sorvola molto allegramente su questi divieti. Anche la legge italiana, che prima disponeva l’iscrizione, sul cartellino penale, del tentativo di suicidio, in quanto reato contro la persona, oggi non pare più interessarsi di tali casi. Rimane aperta la questione dell’eutanasia, che si cerca di mascherare con nomi e posizioni diverse, come testamento biologico, come “morte dolce”, ma soprattutto come gesto che ha bisogno dell’esplicito consenso dell’interessato, enunciato nella pienezza dei suoi mezzi mentali: ognuno dovrebbe far testamento per tempo, inserendovi anche la sua decisione di scelta della morte quando vivere diventa insostenibile o inutile, e ne consegue l’accanimento terapeutico. Non esiste, nel fanatico difensore della vita altrui, un elemento fondamentale che appartiene alla divinità, cioè la misericordia: nessuna pietà per la pena, le sofferenze proprie e dei propri cari, il dramma angoscioso di chi decide di chiudere con la vita: devi vivere, Dio lo vuole. La terribile frase scritta da Cesare Pavese qualche giorno prima del suo suicidio, “Dio, come vorrei che tu ci fossi, per poterti pregare !!”, non apre al rispetto, o alla com-passione verso il dramma e il dolore attraversato da chi decide, come atto estremo d’angoscia, di chiudere con la vita: c’è solo un’ottusa condanna. La stessa per chi vive il rapporto coniugale come un inferno: non ti puoi separare, Dio non vuole. La stessa per chi rimane incinta dopo una violenza, come per chi non sa come nutrire e far vivere un figlio non voluto ancora in grembo, come per chi sa di partorire un essere deforme o destinato a una vita disgraziata: devi accettare la prole, che è comunque un dono di Dio. La definizione della vita come “dono di Dio” ha un limite nel fatto che un dono appartiene a chi lo riceve e colui che lo fa non può chiedere di averlo restituito. Certamente, se dobbiamo schierarci con quelli, che si definiscono difensori della vita altrui, deve trattarsi di un dio apparentemente sadico, se si diverte a riempirci di disgrazie per mettere alla prova la nostra capacità di sapere guadagnarci il paradiso, o se ordina ad Abramo di sacrificare il figlio per provarne l’ubbidienza. Oppure sono sadici quelli che si servono di Dio per mascherare come sua la propria volontà di dominio su chi decide di scegliere liberamente come gestire il proprio destino, quelli che si autodefiniscono pastori, davanti a greggi consenzienti di pecore. Anche in questi giorni la Chiesa fa quadrato sulla condanna del suicidio, lo stesso papa Francesco che sembrava avere una marcia in più rispetto all’apparato che lo circonda, non si è spostato di un millimetro dalla posizione classica. Forse era più avanti Fabrizio De Andrè che, nella sua “Preghiera in Gennaio”, scritta per Luigi Tenco, cantava, parlando di Cristo:
“Quando attraverserà l’ultimo vecchio ponte
ai suicidi dirà baciandoli alla fronte
venite in Paradiso là dove vado anch’io
perché non c’è l’inferno nel mondo del buon dio”
Per non parlare della “Ballata del Michè”, che si impicca in cella per amore:
“Domani Michè nella terra bagnata sarà
senza il prete e la messa perché d’un suicida non hanno pietà”.
E infine l’ultimo impietoso giudizio di chi vive tranquillo: il suicidio è un atto di vigliaccheria, la via più facile per sfuggire ai propri problemi. Il suicida è un debole che non ha il coraggio di affrontare la vita. E giù altre sprezzanti definizioni da cui non trapela nessun rispetto della scelta di morire, nessuna considerazione che, per arrivare a quel punto, bisogna trovare in se stessi una dose incredibile di coraggio, non volere più star dentro a un rapporto divenuto insostenibile, con le indicibili sofferenze, fisiche o psicologiche, con le delusioni insopportabili oltre le quali si intravede solo il nulla.
Tra il non-essere, che è il niente, e l’esserci, che è l’atto di presenza e di valenza, non c’è dubbio che esserci vale qualcosa, non esserci è l’assenza, lo zero. Ma a che serve esserci quando l’essere è vivere e avere davanti il proprio nulla? In ogni caso è un dramma che appartiene a chi lo vive e che non potrà mai essere compreso o condiviso. E quindi niente condanne e anatemi: solo rispetto per la volontà di ogni altro uomo, anche del suicida.
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