De André e la denuncia della borghesia mafiosa

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Il cantautore degli ultimi e degli emarginati nelle sue canzoni denunciò un sistema ingiusto e marcio

copertinafaberFabrizio De André ci ha lasciato l’11 gennaio 1999. Sono passati oltre vent’anni e continuano a fiorire omaggi, ricordi, il suo pensiero e le sue canzoni.

Faber, come lo soprannominò l’amico Paolo Villaggio, è da sempre considerato il migliore e più sensibile cantore degli ultimi, degli emarginati, degli impoveriti della società. E questa è una verità innegabile. Ma c’è una parte di verità sempre più nascosta e taciuta dai più: Fabrizio non si accontentava di raccontare che gli ultimi esistono e denunciava apertamente il perché.

L’emarginazione e l’impoverimento sociale non sono figli di un fato sconosciuto, di avversità ineluttabili. La radice prima di tutte le ingiustizie sociali è la prepotenza, l’ipocrisia, il dominio sociale. Viviamo ancora oggi, ancor di più di vent’anni fa, in una società in cui domina la ricerca del profitto ad ogni costo, dell’omologazione sociale utilizzata come strumento di dominio, di super ricchi che con violenza e prepotenza si impadroniscono di tutto. E per farlo costruiscono distrazioni di massa, sviano l’attenzione facendo credere che la minaccia sociale sia altrove, impongono modelli culturali ipocriti e moralisti per i quali i prepotenti possono tutto. Nascondendo il marcio con retoriche altisonanti e nobili richiami.

Trattativa stato-mafia

Faber lo racconta in maniera superba in Don Raffaè, così come lo fanno comprendere ancora di più le reazioni che suscita. Una canzone che non celebra assolutamente un boss della camorra e punta il dito su uno Stato che alla fine cede, fa affari e si allea con i peggiori potentati, dove vince l’ipocrisia di chi sfila di giorno e poi di notte realizza tutt’altro. Sono decenni che vediamo sfilate, cerimonie, omaggi, promesse elettorali, discorsi contro le mafie, le ingiustizie, la criminalità, la corruzione. Ma la storia vera, quella che depistaggi, trame e intrallazzi cercano di nascondere, ci racconta ben altro. L’Italia del post terremoto in Irpinia e dello spiccare il volo della camorra negli appalti per poi, a partire dalla riunione tra camorristi, massoni, imprenditori e politici a Villa Ricca, prosperare sulle ecomafie. Non è nulla di diverso dalla trattativa stato-mafia dei primi anni Novanta e delle tante altre trattative.

Fabrizio De André raccontò in un’intervista che la canzone Don Raffaè è nata nel 1989. «La classe dirigente politica era intortata con quella economica», disse, «ed entrambe sembravano colluse con le organizzazioni criminali». Una classe dirigente che viveva, e continua tuttora, ad esercitare la “politica” considerando i cittadini pacchi di voti per il potere, sui favori agli amici e agli amici degli amici. Favori per la ricerca di un lavoro o dell’agognata pensione, delle cure per un proprio caro o per avere un servizio pubblico. Per vincere un appalto o un concorso pubblico. Nella stessa intervista criticò ferocemente gli esponenti “politici di rilievo” che si rifiutavano di partecipare ad eventi insieme con il giudice Giancarlo Caselli. «Caselli è uno che da diversi lustri rischia la vita per difendere la nostra società dalla mafia: rischia la vita come Falcone e Borsellino: no, Caselli non va bene, almeno fino a quando non lo faranno fuori» le sue parole che riassumono decenni di ipocrisie e doppio gioco di tanti appartenenti alla classe politica, imprenditoriale e – purtroppo – anche giornalistica d’Italia. Una classe dirigente che in vita perseguitò e accusò di ogni nefandezza Giovanni Falcone, così come oggi fa con magistrati scomodi come Gratteri e Di Matteo, per poi celebrarlo una volta morto. Celebrazioni fasulle e ipocrite in larga parte, portate avanti dagli stessi che hanno cercato di insabbiare e depistare la verità sulle “menti raffinatissime” delle stragi e della trattativa.

Gli ultimi

La prepotenza, la violenza, l’avere come unico obiettivo della vita l’arricchimento e il dominio si scaricano su chi non ce la fa, su chi non è assimilabile alla cultura dominante, sui più poveri ed emarginati. Mentre la democrazia diventa una lotta tra clan per il dominio, in mano a potentati e cerchie sempre più ristrette, un’oligarchia.

Anche qui le canzoni di De André sono illuminanti, a partire dalla Domenica delle Salme. «Una canzone disperata di persone che credevano di poter vivere almeno in una democrazia e si sono accorte che questa democrazia non esisteva più», trasformata in oligarchia.

Nelle canzoni di Fabrizio De André vengono irrisi, svelati, messi in piazza vizi e ipocrisie della borghesia. Gli stessi di allora e di oggi, gli stessi che condannano pubblicamente una ragazza che non rispetta certi “canoni morali” e poi di notte alimentano lo sfruttamento della prostituzione. Un tema quanto mai attuale: sono almeno 15 anni che l’Italia è in vetta alla classifica mondiale per il turismo sessuale (anche pedofilo) e nei suoi confini la tratta della schiavitù sessuale è un mercato sempre in attivo. Le mafie nigeriane e dell’est europeo, saldamente alleate con le organizzazioni criminali tradizionali, non a caso hanno trovato nello sfruttamento della prostituzione l’occasione per radicarsi e arricchirsi.

Nella relazione della Procura Nazionale Antimafia del 2017 c’è scritto che è necessario superare il concetto classico di ecomafia, non esistono criminali isolati che infettano un tessuto sociale “sano” ma di “deviazioni dal solco della legalità per puro e vile scopo utilitaristico”.

Un problema antico

I colletti bianchi, le multinazionali, gli imprenditori e una classe politica connivente e interessata, hanno costruito una vasta rete di economia illegale, sporca, che sfrutta e devasta l’ambiente e ogni possibile settore della vita pubblica. La borghesia sa essere criminale e mafiosa. Questa denuncia sociale è al centro di libri e studi di Umberto Santino sul “paradigma della complessità”: la mafia è un’organizzazione e un sistema di rapporti, intreccio tra crimine, accumulazione, potere, codice culturale e consenso sociale. Un’elaborazione che lo storico siciliano, fondatore del Centro Siciliano di Documentazione Peppino Impastato, ha ripreso da Mario Mineo (esponente del gruppo de Il Manifesto di Palermo) – che analizzò e denunciò la borghesia capitalistico-mafiosa nata negli anni cinquanta – e dall’economista Leopoldo Franchetti in un’inchiesta del 1876.

Negli anni successivi all’Unità d’Italia Franchetti analizzò i “facinorosi della classe media” diventati “una classe con industria ed interessi suoi propri, una forza sociale di per sé stante”. Un sistema sociale che realizzava una vera e propria “industria della violenza” nella quale il capo mafia era il braccio armato al servizio dell’accumulazione del dominio e della subalternità di quei facinorosi, ovvero la borghesia dell’epoca. Subito dopo l’Unità d’Italia l’inchiesta di Franchetti svelò che la mafia non era una sorta di cancro estraneo ad una certa società, era invece la garanzia dello status quo, del privilegio e dell’arricchimento di alcuni. Mentre i contadini, gli operai e i più poveri venivano sfruttati, repressi e anche assassinati. Questo sistema sociale si regge sugli stessi meccanismi (svuotamento della democrazia, come documentato nel libro Il ritorno del Principe del giudice Scarpinato) svelati dalle inchieste di Nicola Gratteri, su come Cipriano Chianese (considerato tra gli “inventori” delle ecomafie) aveva al suo servizio pezzi marci dello Stato, e di cui De André canta ipocrisia e perbenismo. Un sistema come questo ha bisogno di reggersi su un qualche consenso sociale e su un’ampia propaganda.

Fonte: wordnews.it

3 Commenti
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