Troppa è la corruzione, la falsità, il trionfo dell’apparenza e della volgarità. Troppo accreditati i finti rinnovamenti, moralismi abusivi, demagogia e semplicismo. Troppo evidente la carica di eversione e deviazione che caratterizza mansioni che dovevano essere di estrema responsabilità. Troppo tracotanti si riaffacciano durezza sociale, logica del più forte, competizione selvaggia. Davvero non si sa dove trovare le risorse spirituali per cimentarsi su un terreno sempre più impervio. Non sarà magari più saggio abbandonare un campo talmente intossicato da non poter sperare in alcuna bonifica, e coltivare – semmai – altrove nuovi appezzamenti, per modesti che siano?
È ancora possibile fare politica insieme agli impoveriti e agli ultimi, ai piccoli e ai deboli, senza rimanere ingabbiati nei soliti rituali e nelle meschine dinamiche dei palazzi? E’ concepibile, come chiese Alexander in occasione del G7 a Napoli del luglio 1994, silenziare gli altoparlanti, moderare le televisioni, limitare le pubblicità per “dare spazio e voce, ospitalità e megafono alle molte voci dei piccoli, alle voci del sud, alle voci di coloro che non scelgono di gridare, o che non hanno più fiato per farlo”? Fare politica non per il potere ma solo per le vittime e gli sfruttati?
Ci può essere uno spazio per essere amici solo “degli scarti”, come Alexander disse alla Comunità Emmaus nel 1991, per ripartire dagli emarginati e trasformare chi viene scartato in “sorgente di vita” generando solidarietà e umanità per tutti? Si può partecipare alla polis senza gridare, senza imporre i propri egoistici interessi, senza sollecitare i più bassi istinti (a)sociali? C’è ancora spazio per una politica che non sia rappresentata (in senso più o meno metaforico) da cazzotti e sberle e, invece, doni anche carezze e calore umano? È possibile una partecipazione alla vita pubblica guidata solo dalla gentilezza e dalla generosità, senza secondi e altri grigi interessi?
È ancora consentito fare politica avendo come stella polare l’Amore e la nobiltà d’animo? È possibile donarsi agli altri senza smarrirsi, senza arrivare un giorno a non averne più, rimanendo schiacciati dalle peggiori dinamiche culturali e politiche? Si può andare avanti senza accumulare delusioni e amarezze, perdendosi nel deserto dell’animo, e avendo invece sempre la bisaccia della speranza colma? Esiste ancora uno spazio, un luogo, dove accompagnarsi a chi piange le lacrime della disperazione più cupa, subisce disumane quotidiane ingiustizie, è incatenato ai pregiudizi e ai perbenismi più ipocriti, senza che l’angoscia e il fallimento trionfino? Chi si ricorda più di Michele, il precario della vita che si è congedato da questo mondo qualche mese fa? Dopo l’emozione di un momento, tutto dimenticato, tutto finito nel tritacarne mediatico. Eppure la sua lettera dovrebbe ancora interrogare e angosciare. Perché la lettera di Michele, al contrario di quel che molti hanno voluto interpretare allora (un’interpretazione che sicuramente ha fatto comodo a molti “anti-governisti”, presunti “antagonisti” e oppositori capaci solo di autoreferenzialità ed egoistica sopravvivenza…), non è solo un j’accuse ad un ministro. Michele si sentiva straniero di una società nauseante ed egoista, di una quotidiana lotta disumana contro l’altro per arrampicarsi, per affermarsi, per schiacciare quanti non si omologano, rifiutano le etichette, i parvenu e le convenienze, le false apparenze di una sopravvivenza piatta, grigia e monotona. Un essere stranieri che porta ad essere allontanati, giudicati. Fino ad essere condannati ad una vera e propria morte sociale, impediti e impossibilitati ad esprimere pensiero, poesia della vita, sentimenti, a riflettere ed essere autentici, veri. Il gesto estremo di Michele e la sua lettera interrogano, pongono angosciosi dubbi, ci dovrebbero costringere a fare i conti con la natura di questo mondo, di come lo si sta plasmando. E’ politica, ministro o non ministro, anche questa. Anzi, soprattutto questa.
Possiamo ancora trovare la forza di ribellarci ad ogni bantustan geografico e politico, disertare i muri dell’incomunicabilità e costruire ponti dove si possa transitare e arricchirsi? Essere asserviti solo alla fratellanza, alla sorellanza, al cuore che si apre ad altri cuori e costruisce un avvenire migliore e comune? Ascoltare la sofferenza e il dolore, senza pensare che “il dolore degli altri è un dolore a metà” (parafrasando Dé Andre), e non aver riposo fino a che non se ne saranno asciugate le lacrime e riparato un piccolo pezzettino di mondo? Così da, pezzettino dopo pezzettino, tentare di riparare questo nostro mondo devastato, essere portatori di speranza senza che sia troppa la distanza con la realtà quotidiana, senza che il carico di amore per l’umanità e di amori umani ci schiacci ma, al contrario, ci doni ali per un comune volo?
Alexander non era solo un uomo che volava alto, forse troppo alto per tanti, un sognatore incallito rimasto fedele fino all’ultimo ai suoi nobili ideali. È stato anche un camminatore concreto, una persona che si sporcava le mani cercando di pulire le brutture umane ovunque sentisse ci potesse essere bisogno. Una concretezza che s’intrecciava con i sogni e gli ideali, e li rendeva vivi e veri. Lo dimostra la “Fiera delle utopie concrete”, un luogo fecondo di iniziative e quasi un manifesto politico già nel nome.
Nelle scorse settimane sono tornati alla ribalta della cronaca i cambiamenti climatici. Quell’accordo prevede l’obiettivo di mantenere l’innalzamento delle temperature sotto i 2 gradi. Nella situazione attuale è un obiettivo più che ambizioso. E sicuramente sarebbe già un traguardo importante. Ma pensare che dai cambiamenti climatici, dal disastro ecologico che sta devastando il Pianeta e impoverendo milioni di persone, ci salveremo solo così è una pericolosa illusione. E anche qui Alexander, protagonista a Rio nel 1992 e capace già allora di essere attento profeta, ci fornisce ancora oggi la stessa polare. Dimostrandoci che non è solo una questione di aritmetica del termometro, o di nicchie economiche in espansione (pensiamo ai prodotti bio ed eco che ormai impazzano sugli scaffali dei centri commerciali…).
I cambiamenti climatici s’intrecciano con le disuguaglianze crescenti, con un’economia sempre meno democratica e più oligarchica, con l’esplodere di guerre sempre più devastanti e un mondo ogni giorno meno sicuro. Un mondo dove aumentano sempre le disuguaglianze e le ingiustizie economiche e sociali. S’intreccia con le migrazioni, e l’umanità che preme ai confini dell’Europa e dell’Occidente fuggendo da povertà, miseria, guerre. Figlie della corsa globale al riarmo (rafforzando sempre i forzieri di poche ricchissime elites) e delle guerre fomentate anche, se non soprattutto, da interessi residenti nei grandissimi palazzi della finanza e dell’industria di New York o Londra, Parigi o Milano. Gli stessi interessi che alimentano i portafogli di alcuni e tolgono ogni diritto a impoveriti e deboli anche delle nostre latitudini. Perché i soldi che finiscono nei caveau di alcune grandi finanziarie, che vengono investite nel commercio delle armi, che vengono guidati dalla fallimentare (e anche sbagliata, basti pensare a quanto accaduto in Massachusetts nel 2013 con uno studente che ha verificato gli errori dei massimi teorici dell’austerity, politica dei sacerdoti neocapitalisti, sono strappati ad ospedali, infrastrutture, servizi sociali per le classi più deboli e povere. Così come la cancellazione dei diritti e la trasformazione del lavoratore in moderno servo della gleba sono strumentali solo alle ricchezze di pochissimi.
È notizia di questi giorni una nuova grande operazione delle forze dell’ordine contro il caporalato in Puglia. Quel caporalato che in tantissimi casi sfrutta migranti provenienti dall’Est Europa, da Africa e Asia. Ma, in questo caso, erano sfruttate soprattutto italiane. Come Paola Clemente, uccisa dallo sfruttamento due anni fa poche settimane prima di Arcangelo De Marco e Mohamed. Nell’inchiesta di questi giorni è emerso che lo sfruttamento era anche sessuale. Come è stato denunciato nel ragusano, da Antonello Mangano (come riportato anche qui) su L’Espresso nel 2014 e Alessandra Sciurba in una ricerca per il “Centro di documentazione L’altro diritto dell’Università di Firenze” l’anno prima. Quel caporalato che, come denunciato di recente anche da Coldiretti, schiavizza anche in altre parti del mondo (senza che finora vi sia stato un intervento istituzionale europeo e italiano) per la produzione di prodotti agricoli che quotidianamente arriva sulle tavole delle nostre latitudini.
Era la fine degli Anni Ottanta. Un’intera generazione s’incamminava e s’impegnava, uscendo dal Novecento, interrogandosi sul mondo che lo circondava e cercando soluzioni nuove. E anche se, probabilmente, molti neanche conoscevano Alexander (o, in alcuni casi, lo consideravano lontano), hanno percorso gli stessi sentieri, si sono inerpicati per le stesse montagne. Quel cammino che Alexander ha tracciato in tanti scritti, in cui ha indicato la stella polare da seguire. A partire dal “Decalogo per una convivenza inter-etnica” e da “Non basta l’antirazzismo”, pubblicato su Nigrizia nel 1989, dall’invito a rendere la conversione ecologica “socialmente desiderabile” a “Pace e nuovo ordine mondiale”, intervento pubblico del 1991 sulla politica dei movimenti per la Pace.
Partendo dal pensiero di Alexander Langer nei giorni scorsi è stato lanciato un appello contro l’intenzione del governo italiano di chiudere i porti alle organizzazioni umanitarie. “Un simile atto di barbarie non può essere accettato da nessuno, indipendentemente dalle singole posizioni politiche o ideologiche. Si condannerebbero con cinismo immorale a morte migliaia di persone sospese fra le persecuzioni subite nei paesi di origine, quelle patite in Libia e il diritto alla salvezza” leggiamo nell’appello che chiede all’Unione Europea di assumersi responsabilità e prendere “decisioni coraggiose”, in linea con i principi morali che ispirano le costituzioni nazionali e dovrebbe ispirare “ciò che resta del sogno europeo”. Quel sogno che già Alexander vedeva come si stesse infrangendo tra la guerra nei Balcani e il trionfo della finanza nel Trattato di Maastricht. Non si deve negare “a donne, bambini e uomini di trovare riparo nei nostri porti, in nome di calcoli elettorali o degli allarmi esasperati degli imprenditori della paura” e “troviamo insieme forme e modi per far sentire nelle nostre città, davanti alle prefetture, ai porti, la voce troppo spesso rimasta isolata di chi non vuole essere ancora complice di ulteriori misfatti” sono alcuni dei passaggi chiave dell’appello. Il Mediterraneo sta diventando sempre più una fossa comune, dove ogni giorno c’è chi trova la morte. E quindi “dobbiamo decidere, anche individualmente, da che parte stare. Verrà il giorno che di questo immenso crimine si dovrà rendere conto e nessuno di noi potrà dire io non sapevo. Sappiamo e dobbiamo avere la dignità di decidere se restare umani o scivolare nella normalità della barbarie, quella che non fa più notizia e non smuove più alcuna coscienza”.
Molti vedevano quella generazione come composta di “anime belle” da commiserare, non comprendevano, i puristi delle ortodossie e i sacerdoti delle chiese (riprendendo la forte definizione di Eugenio Montale) politiche storcevano (e storcono ancora) il naso. Ma erano gli unici costruttori di uno spazio pubblico non avvelenato e non devastato. Sui ponti distrutti dei Balcani o nei deserti iracheni, a margine dei summit dei “Grandi della Terra” o nei sotterranei della Storia dove quotidianamente l’iniquità sociale ed economica violenta ed uccide, senza schierarsi con Potenti o cancellerie, rifuggendo la realpolitik e le dinamiche di schieramento politico. Quella generazione ottenne importanti successi, mise in difficoltà i governi e denudò la vuota ipocrisia dei palazzi. Mai come oggi di quella generazione si ha un vitale bisogno, sarebbe più che necessario proseguire quel cammino. Ma gli scalatori miti e ostinati, coloro che abitano gli interstizi e non i campismi, con il coraggio del mare aperto, appaiono sempre meno, divisi e indeboliti. Perché quei percorsi, quei ponti, quelle strade, sono percorse oggi da sempre meno persone? Perché appaiono sempre più difficili? Può esistere ancora uno spazio non devastato e avvelenato, dove animare un tessuto sociale, politico, lontano da ogni tentazione di potere? Si può tornare a far sentire la propria voce camminando solo con gli ultimi e denunciando l’iniquità globale della guerra permanente (e di ogni guerra, ogni oppressione, ogni tirannia) e di quest’ordine economico? Attraversare questo nostro mondo, viverne le contraddizioni e gli arcobaleni dietro ogni nube e tempesta, con lo stesso coraggio, fantasia e generosità d’animo di Francis Pharcellus Church? Un nome che a molti non dice nulla ma a cui tutti dovremmo essere grati. Perché ci ha insegnato che anche nel mondo degli “adulti” si può essere piccoli, anche in un mondo dove dominano aridità e calcolo si può essere guidati dai sogni e dal cuore. Church è l’autore dell’editoriale più famoso della storia del giornalismo mondiale. Il 21 settembre 1897, in un editoriale del New York Sun, scrisse a Virginia (una bambina figlia di un lettore abituale del giornale che in una lettera aveva chiesto se Babbo Natale esiste veramente) che “Babbo Natale esiste”, esattamente come “l’amore, la generosità e la devozione” che esistono per donare alla vita “bellezza e gioia”. E se così non fosse, “come sarebbe triste il mondo” perché “non ci sarebbe nessuna fede infantile, né poesia, né romanticismo a rendere sopportabile la nostra esistenza. Non avremmo altra gioia se non quella dei sensi e dalla vista. La luce eterna con cui l’infanzia riempie il mondo si spegnerebbe”. Nessuno lo ha mai visto, nessuno lo ha mai toccato, nessuno ci ha mai parlato, ma questo non cambia nulla. “Nessuno può concepire o immaginare tutte le meraviglie del mondo che non si possono vedere. Puoi rompere a metà il sonaglio dei bebé e vedere da dove viene il suo rumore, ma esiste un velo che ricopre il mondo invisibile che nemmeno l’uomo più forte, nemmeno la forza di tutti gli uomini più forti del mondo, potrebbe strappare. Solo la fede, la poesia, l’amore possono spostare quella tenda e mostrare la bellezza e la meraviglia che nasconde”. Oggi può essere consentito uno slancio generoso, “fosse anche un sogno matto” (come canta Guccini), come quello di Church?
Ma sono questi, e tanti altri potrebbero seguirli, interrogativi che non hanno una risposta pre-confezionata. Non esiste nessun tavolino dove sedersi, nessuna cattedra sotto cui porsi, che possa soddisfarli. L’unica possibilità è l’impegno, è la strada, è il cammino. Solo al termine, guardandosi indietro, si potrà forse capire se si è riusciti a continuare “in quel che è giusto”. Come ci lasciò scritto lo stesso Alexander a Pian de’ Giullari.
Tratto da qcodemag.it
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