8 Marzo: festa o giornata della donna?
Questo articolo è stato in parte pubblicato sul sito www.peppinoimpastato.com l’8 marzo 2011. Da allora ben poco è cambiato, la crisi continua ad attenagliare i bilanci delle famiglie e le donne pagano gravemente il peso, in termini di posti di lavoro. Da qualche anno i mass media hanno identificato, come tema di discussione, quello che con un brutto termine è stato chiamato “femminicidio” e, in modo più esteso, il problema della violenza sulle donne che ancora, in un gruppo di stati dove vivono 500 milioni di persone, non è considerata un reato.
Le femministe degli anni ‘70 ci tenevano a dire che l’8 marzo è la giornata della donna e non la festa della donna. Dietro questa data esistono versioni diverse.
La tradizione socialista faceva risalire l’origine di questa giornata al grande sciopero parigino dell’8 marzo 1848.
In Italia, a partire dagli anni 50 cominciò a diffondersi una versione diversa. Nel 1952 il settimanale bolognese La Lotta scrisse che la data si riferiva a un incendio scoppiato in una fabbrica tessile di New York l’8 marzo 1929, in cui sarebbero morte 129 giovani operaie, in gran parte italiane ed ebree, che minacciavano uno sciopero e che, per ritorsione, erano state fatte chiudere dentro dal padrone, il quale avrebbe poi ordinato di dar fuoco alla fabbrica. Nel 1978 troviamo sul giornale Il Secolo XIX che l’episodio era successo a Chicago, mentre, qualche anno dopo, nel 1980, La Repubblica scriveva che l’incendio era successo a Boston nel 1898. In tempi più recenti, nel 1982, sul giornale “Noi Donne” è stato scritto che l’incendio era effettivamente scoppiato a Boston, ma nel 1908 e che le operaie morte sarebbero state 19. Da altre fonti sappiamo anche che la fabbrica era l’industria tessile Cotton e che il proprietario sarebbe stato un certo mister Johnson.
Ebbene, da tutte le ricerche effettuate non esistono prove e documenti che confermino questo orribile episodio. Secondo Piero Errera il falso storico sarebbe stato inventato e diffuso dalla stampa comunista ai tempi della guerra fredda, per dimostrare la cattiveria del capitalismo americano. Di sicuro si sa che nel 1911, cioè un anno dopo la data d’inizio della “festa”, a New York, nella TriangleShirtwaist Company, scoppiò un incendio, non doloso, che, favorito dalle scarse condizioni di sicurezza e d’igiene della fabbrica, causò 140 morti, non tutte donne, I proprietari della fabbrica MaxBlanck e Isaac Harris, vennero prosciolti nel processo penale ma persero una causa civile. Ma soprattutto l’8 Marzo non ha nulla a che fare né con lo sciopero delle lavoratrici, che iniziò il 22 Novembre 1909 né con l’incendio della fabbrica,che avvenne il 25 Marzo 1911.
Il richiamo a un tragico fatto, sulla cui esistenza esistono comunque seri dubbi, sarebbe già sufficiente a proporre la data dell’8 marzo come una giornata di riflessione sull’eterna questione femminile e non come una festa. Passati gli anni 70 le donne non sfilano più in corteo e le più assatanate non gridano più “Maschio represso, ti taglieremo il sesso”. Anche perché ci sarebbe da discuterne. Una falsa concezione del rapporto uomo-donna una volta tendeva a generare conflittualità interna ai due sessi, senza accorgersi che la conflittualità è tra le classi sociali, indipendentemente dal sesso e che proprio da queste viene alimentata e ridotta a contraddizione interna. Così è rimasta la questione delle pari opportunità, Sono rimasti enormi vuoti nell’occupazione femminile e nella creazione di strutture che permettano alle donne di esplicare il loro doppio ruolo di madri e di lavoratrici. In politica è ancora enorme lo strapotere maschile e il modello maschile, quello di chi porta i pantaloni, rimane ancora il punto di riferimento per molte donne che vogliono far carriera.
Sul Corriere della sera del 9 marzo 2011 c’era un articolo in cui Stefania Sandrelli diceva che il tempo delle cene, lasciando per una sera i mariti a casa, è finito e che bisogna fare i conti con la crisi, della quale le donne stanno pagando in maggior misura lo scotto.
Per contro molte donne paesane aspettano questa data per esibire il rametto di mimose e per occupare pizzerie e ristoranti. C’è ancora qualche locale che ripropone lo spogliarello di qualche furbacchione che, imitando il modello e le movenze femminili, ci rimedia qualcosa. E in questo le donne sono andate più avanti degli uomini, perché non risulta che in zona si effettuino spogliarelli femminili. Per un bungabunga in grande stile bisogna arrivare ad Arcore.
Sembrano ormai dispute d’altri tempi quelli sulla superiorità maschile, sia essa fisica che intellettuale, o, per contro, sulla superiorità femminile in altre sfere. Sono diversità che rendono pienamente giustificata, per ognuno dei sessi, la bella definizione “l’altra metà del cielo”. Vero che ancora parte di questa metà non è stata occupata o è ancora occupata dal maschio. Soprattutto in alcune zone del mondo in cui certe ataviche abitudini, camuffate da qualche giustificazione pseudoreligiosa, relegano le donne a ruoli mortificanti e indegni della stessa condizione umana. In Italia la situazione continua a evolversi più o meno con lo stesso passo degli altri grandi paesi europei: il numero dei prefetti-donne già dal 2013 ha superato quello degli uomini, nelle scuole le donne-insegnanti, da sempre occupano il 70% delle cattedre, l’assistenza sanitaria è in gran parte femminile, anche nei posti di dirigenza lo scarto si va progressivamente colmando. La politica ancora è invece, in maggioranza e sarebbe interessante sapere se un’inversione dei generi potrebbe portare a sostanziose modifiche o se l’assorbimento, l’introiezione del modello maschile, non lascerebbe l’evoluzione del tutto nel senso della continuità.
Davanti alla mitologia greca, dove Afrodite nasce dalla spuma del mare, il cristianesimo fa nascere Eva da una costola di Adamo: in altri termini Eva partorita da Adamo, così come Atena partorita da Zeus, è la negazione totale dello specifico femminile della procreazione, il sogno irraggiungibile dell’uomo. Ce ne stiamo andando all’utero in affitto, che è un’altra questione dove il rispetto per il proprio corpo, una questione etica, si trova davanti all’uso che si sceglie autonomamente di farne, del tipo “l’utero è mio e me lo gestisco io”, cioè una questione economica. Ma è un altro discorso. O forse è lo stesso.