Placido Rizzotto nacque a Corleone nel 1914. Ancora ragazzo restò orfano di madre e fu costretto a lasciare la scuola per mantenere la famiglia dopo che il padre era stato arrestato per una ingiusta accusa di associazione mafiosa. Arruolato nell’esercito italiano, durante la Seconda guerra mondiale combatté in Carnia, in Friuli, e dopo l’8 settembre fece parte delle brigate partigiane che organizzavano la resistenza locale contro i nazifascisti. È lì che si rese conto di un principio che lo accompagnò, al suo ritorno in Sicilia, ovvero che la lotta per la liberazione dai nemici esterni ed interni, dalle ingiustizie e dalle prepotenze va portata avanti con un’organizzazione militare che non sia disposta a subire le violenze del nemico di classe, particolarmente quelle della mafia e del sistema politico e sociale che la protegge. Nominato Presidente dei combattenti dell’ANPI, l’associazione dei partigiani, si iscrisse al Partito Socialista Italiano e divenne sindacalista della CGIL. Iniziò così a Corleone la sua “lotta di liberazione” dallo strapotere mafioso che controllava le terre, sfruttava i contadini, li assumeva secondo feudali sistemi clientelari e controllava interamente la produzione e i mercati. Placido si mise alla guida dei lavoratori della terra esortando i contadini a ribellarsi, ad organizzarsi e a far valere i loro diritti attraverso l’occupazione delle terre in mano alla mafia e a procedere alla distribuzione dei terreni incolti, come prescritto dai decreti Gullo, che imponevano l’obbligo di cedere in affitto alle cooperative contadine le terre incolte o malcoltivate dei proprietari terrieri. Uno dei terreni assegnati alle cooperative apparteneva ed era sotto il controllo di Luciano Liggio, che presto diventerà uno dei più grandi boss mafiosi di quel tempo. In uno dei vari momenti di scontro, durante una lite tra ex partigiani e mafiosi locali sotto il controllo del medico capomafia Michele Navarra, per il quale Liggio lavorava, Rizzotto lo aveva umiliato pubblicamente sollevandolo e appendendolo all’inferriata della villa comunale.
Circa un anno dopo, Il 10 marzo del 1948 Liggio attirò Rizzotto, in un’imboscata, con la complicità di Pasquale Criscione e Vincenzo Collura, lo uccise e ne gettò il cadavere in una delle “foibe” di Rocca Busambra. Un pastorello di 13 anni, Giuseppe Letizia, che da lontano aveva assistito all’omicidio, ritrovato dal padre il giorno dopo, in preda a un forte shock emotivo venne ricoverato presso l’Ospedale dei Bianchi, diretto da Michele Navarra, che provvide a chiudergli la bocca con un’iniezione letale. A condurre le indagini sull’omicidio fu l’allora capitano dei carabinieri Carlo Alberto Dalla Chiesa che arrestò Collura e Criscione e ne raccolse la confessione, ma i due, in seguito ritrattarono e furono assolti per insufficienza di prove. I resti di Rizzotto sono stati raccolti e riconosciuti solo il 7 settembre 2009.
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