Ci hanno provato e ci stanno provando in tutti i modi a cancellare questa festa. Il pensiero che possa essere esistita una Resistenza, che gli Italiani possano essersi ribellati al ducetto e ai suoi gerarchi, che possano avere messo in crisi e al muro un regime durato vent’anni, proprio non riescono a digerirlo. Non ci vuole molto a capire perché: ormai le destre neofasciste, incipriate di sovranismo, di antieuropeismo, di razzismo, sono certe che alle prossime elezioni andranno al potere e, se ci vanno vorranno restarci almeno per altri vent’anni. Il neoduce questa volta non è Mussolini che, nel bene e nel male una sua dimensione culturale la possedeva, ma è uno zoticone, ignorante, rozzo e pieno di sé, espressione di una categoria di Italiani che oggi, grazie al rincoglionimento mediatico è diventata maggioritaria. Attorno a lui una serie di “sciacalletti”, dai sopravvissuti del berlusconismo ai fascistissimi di Casa Pound e Ordine Nuovo, ai fascisti semimoderati di Larussa e Meloni, ad alcuni reduci pentastellati, generali, colonnelli e capitani, dirigenti di aziende padane, mafiosi sommersi con forti capitali disponibili, proprietari di testate giornalistiche e di emittenti televisive, pronti a verniciarsi ipocritamente la facciata di democrazia e pronti a saltare sul carro dei nuovi padroni, ma anche protettori internazionali, a partire da Trump e dai vari neoconservatori presenti in tutto il mondo. Personalmente sono convinto che mai come ora la democrazia italiana sia in pericolo, a seguito di una serie di circostanze che hanno creato il terrono favorevole alla definitiva spallata. Ultimo arrivato il coronavirus, strumentalizzato, come al solito per dare addosso al governo, che si trascina a causa dell’emergenza, come un ubriaco che sta in piedi barcollando. In mezzo c’è la crisi inarrestabile dei cinquestelle, incapaci dopo l’abbandono di un personaggio inutile, come Di Maio, di darsi una guida, forse perché non ne hanno o non sono capaci di accettarla, e ormai avvitati nel loro autolesionismo e nel dare spallate agli alleati di governo, da sempre malsopportati, anche con la Lega. C’è poi la decomposizione del PD, anch’esso incapace di darsi una guida autorevole, dopo la disastrosa gestione renziana, abbarbicato ad una tiepida ed inconcludente patina socialdemocratica che gli impedisce di farsi carico e diventare punto di riferimento delle categorie più deboli: da tempo la scelta di questo partito non è il proletariato, ma la piccola e media borghesia, oggi in forti difficoltà di sopravvivenza, amputata giornalmente dalle feroci ganasce dei padroni di quel che resta del capitalismo italiano, ormai risucchiato dagli interessi economici di altre nazioni, dalla Germania, all’Inghilterra, agli Stati Uniti. In tutto questo risucchio di risorse il Nord Italia gioca la sua parte, rispetto al sud, da sempre relegato al ruolo di terra da cui rapinare e mungere risorse. Anche sulla tenuta delle istituzioni le prospettive sono poco lusinghiere: la disastrosa riforma elettorale ha del tutto esautorato la prerogativa di scelta dei parlamentari e preme verso una repubblica presidenziale, con l’infausta introduzione di premi di maggioranza, sbarramenti, ridisegnazione dei collegi elettorali, introduzione del sistema maggioritario, in pratica con la cancellazione delle minoranze dalla vita politica. Renzi ci aveva provato: non gli è andata bene, ma ci riproveranno quanto prima. Anche le politiche sociali stanno segnando un ritorno a forme di assistenzialismo clientelare, e la crisi sembra favorire questa tendenza ad affidarsi a un padrino politico, spesso regionale, o a una banca, per risolvere i problemi economici, con la conseguenza di essere risucchiati in un vortice senza speranza e finire nelle mani di strozzini e usurai più o meno legalizzati, ivi inclusi i mafiosi. Molte altre sono le cose su cui si potrebbe estendere l’analisi. Ed è in considerazione di tutto questo che il 25 aprile assume quest’anno una caratteristica ben più pregnante di Resistenza all’incalzare del neofascismo, con un preoccupato allarme: se non ci si comincia a muovere e a vigilare sin da adesso, tra qualche mese sarà troppo tardi.
Radio Aut: pesco un vecchio disco di canti della Resistenza pieno di struscii, rumori di fondo e di uova fritte e attacco con “Bella Ciao”, poi vado a ruota libera, come se stessi facendo una lezione, il solito vizio professionale. Penso per prima cosa al mio professore di liceo, che ci diceva: “Liberazione, ma da chi?” In realtà, a quella data, cioè il 25 aprile 1945, noi siciliani eravamo stati “liberati” da un pezzo, pochissimi i colpi sparati, nella marcia degli americani da Gela a Palermo. Qualche scaramuccia più cruenta si era avuta nel catanese per la presenza di un forte contingente tedesco che gli americani avevano scaricato sulle spalle degli inglesi. Non ci eravamo liberati dal nemico, sol perché numericamente insufficiente ad affrontare l’offensiva alleata, e che, pertanto si era ritirato, come i soldati borbonici davanti a Garibaldi, non ci eravamo liberati da noi stessi, perché nessuno aveva usato un’arma, non ci eravamo liberati dai fascisti, perché erano quasi tutti rimasti ai loro posti diventando collaborazionisti. E soprattutto non ci eravamo liberati dalla mafia, che aveva spianato la strada agli americani e aveva in cambio ricevuto lucrosi affari e incarichi. Il momento della liberazione parve invece essere arrivato due anni dopo, quando, il 20 aprile 1947 il Blocco del Popolo vinse le elezioni. Sembrava che tutto dovesse cambiare: c’era fame di terra, la promessa di distribuzione delle terre incolte, la volontà e la capacità di organizzare le lotte per la conquista dei feudi da parte di alcuni sindacalisti, disposti a mettere a rischio anche la propria vita. Può essere affascinante l’ipotesi che la nostra Resistenza sia stata quella, ma che si sia tragicamente realizzata con la strage di Portella della Ginestra e con lo sterminio di una quarantina di sindacalisti. E a questo punto le differenze cominciano a delinearsi: la Resistenza era stata una “lotta armata”, oltre che un’insurrezione o una lotta di popolo contro un nemico interno, il fascismo, e contro il suo alleato esterno, il nazismo. La Resistenza aveva avuto un supporto logistico da parte degli alleati, che avevano rifornito di armi e assistenza alcuni nuclei più agguerriti, diffidando comunque dei gruppi troppo orientati a sinistra. La Resistenza aveva potuto usufruire di un forte comitato di Liberazione, attorno al quale si erano stretti tutti i nuclei antifascisti. Nulla di tutto questo invece nelle lotte contadine per la conquista delle terre del biennio 46-48. I contadini si battevano per il rispetto della legalità, ovvero per l’applicazione di una legge dello stato, i decreti Gullo. Non avevano armi, ma solo la loro voglia di lottare insieme contro i gabelloti, ovvero contro il braccio armato dei grandi latifondisti. Il P.C.I. e il P.S.I, a parte il grande dispendio di forze impiegate nella creazione di strutture organizzative (Federterra, Federbraccianti ecc.) non avevano potuto e saputo dare, ma non poteva essere altrimenti, una carica offensiva e difensiva forte che potesse fungere da risposta alle prepotenze armate dei mafiosi. Lo Stato se ne stava a guardare, potendo i mafiosi contare su tutta una serie di complicità che andavano dall’ordine pubblico all’amministrazione della giustizia, al controllo dei voti nelle campagne. A chiudere il cerchio l’atteggiamento americano, che mai avrebbe permesso, dopo gli accordi di Yalta, la creazione di una regione gestita dalle sinistre al centro del Mediterraneo. E così, quella che poteva essere una vittoria che avrebbe segnato la fine della mafia, si tramutò in una sonora sconfitta e nella perpetuazione del sistema atavico di controllo delle campagne e dei lavoratori. Si può chiamare questa la “nostra resistenza”? Erano partigiani i contadini in lotta? Qualcuno ci provò: Placido Rizzotto, per esempio, proveniva dall’esperienza partigiana al nord e su questa traccia stava cominciando ad organizzare i contadini. Anche di Giuseppe Maniaci, sindacalista di Terrasini, si sa che non era disposto ad accettare alcuna prepotenza. Tutto questo avrebbe significato lotta armata, cioè autentica Resistenza contro un nemico interno, la mafia, altrettanto feroce quanto i fascisti. Non fu così perché le condizioni per una guerra armata erano tramontate e perché i dirigenti contadini lottavano per il trionfo della giustizia dello stato. Adesso ha un senso definire partigiani tutti coloro che si impegnano nella lotta alla mafia? Non c’è dubbio che essere partigiano è qualcosa di affascinante, ma molto lontano dalla realtà, perché i mafiosi usano la pena di morte, mentre gli inermi cittadini , ma anche lo stato, si attengono alle norme della società civile, a meno di non indulgere a pericolose complicità. Perso in questa domanda scrivo qualcosa…
Partigiano d’altra sponda
ho conosciuto mafiosi, anziché fascisti,
la differenza non era poi molta:
stesse indicibili violenze,
stesso sistema di paura,
stessa scientifica teoria del silenzio,
stesso teschio come simbolo.
Sempre col vecchio dilemma,
se rispondere allo stesso modo
o se scegliere la non–violenza,
se subire l’esercizio del ricatto
e sperare nella protezione dello stato,
oppure organizzare passaggi di lotta dura.
Nella teoria del rosso si amalgamano le arance,
i gelsi, il melograno, il pomodoro, il sangue.
Ogni giorno trangugi la bibita
e ti predisponi all’assuefazione.
Nei casi di ordinaria eversione
c’è l’emarginazione,
per la scheggia impazzita c’è l’eliminazione.
D’improvviso mi ricordo che il 25 aprile 1977 Radio Aut metteva in onda le prime prove di trasmissione. Sono passati appena tre anni e quella che poteva essere una micidiale arma d’offesa, in fin dei conti si è ridotta a sparare proiettili a salve, un pesce costretto a boccheggiare per mancanza d’ossigeno, di linfa vitale. Ogni velleità ha finito con il fare i conti, con il dileguarsi, davanti al muro invalicabile che ci è stato costruito attorno. Reagisco alla sensazione d’impotenza mettendo sul piatto canti di resistenza e canti di lotte sociali d’ogni tipo, a cominciare da “Contessa”.
Dal libro di Salvo Vitale “Cento passi ancora” (Rubbettino 2014)
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