Sono riuniti in questo volume, pubblicato dall’editore Billeci di Borgetto, in occasione del 35° anniversario della morte, gli scritti di Vincenzo Vitale, in particolare i suoi due libri “La vita non ha meta”, pubblicato a Brescia nel Febbraio 1978 e “Tutto e destino”, pubblicato a Palermo per le edizioni Vittorietti nel 1983. Ho curato, con l’amore che mi legava a mio padre, l’acquisizione digitale dei due lavori, dandone una sistemazione ed aggiungendo altri manoscritti inediti.
Vincenzo Vitale: Terrasini 24.02.1913 – 21.03.1986.
Buona parte della sua vita se n’era andata due anni prima della sua morte, quando un terribile ictus cerebrale lo aveva colpito, distruggendo interamente le sue capacità di movimento, di autonomia, di espressione. Intuivamo che in quel corpo martoriato c’era un cervello ancora funzionate, dalla vivacità degli occhi, che seguivano ogni movimento, dalla capacità di riconoscere chi lo andava a trovare, dai continui singhiozzi che esprimevano la coscienza della propria terribile sorte e la difficoltà nel doversi rassegnare a ciò.
Chi era Vincenzo Vitale? Era rimasto orfano sin da piccolo e si era sottoposto ai lavori più umili per portare avanti una famiglia che gravava sulle sue spalle. Poi il fascismo aveva dato l’illusione che era possibile rifarsi una vita nelle colonie africane: come molti altri egli ci aveva creduto, ma, una volta imbarcato, gli avevano detto che la destinazione non era più l’Africa, ma la Spagna, dove bisognava andare a combattere “una nuova crociata”, il tutto inizialmente per poche lire al giorno, che poi divennero molte meno.
In Spagna una scheggia nemica gli aveva portato via la mano destra: quando si era reso conto del suo stato, aveva avuto solo una grande pena, quella di non potere più suonare la chitarra. Tornato a casa era riuscito a trovare il modo per continuare a suonare, costruendosi un piccolo apparecchio: suonava anche il violino, legando con un laccio l’archetto alla protesi. Trovò lavoro presso l’ospedale Psichiatrico di Palermo, dove, dopo trent’anni, lasciò un ricordo di lavoratore onesto, puntuale e dignitoso. Con il suo magro stipendio riuscì ad acquistare una casa, a dare una strada di vita ai suoi figli, ma non si fermò qui. Continuò a coltivare la sua passione per la musica e per la poesia. A quarant’anni imparò il solfeggio e si iscrisse alla SIAE con la qualifica di compositore: si può dire che due generazioni di chitarristi locali sono uscite dalla sua scuola. Interveniva alle feste e alle iniziative culturali, dimostrando grande capacità artistica e creativa. Lascia un centinaio di canzoni, tra le quali “Terrasini Favarotta”, sorta di inno popolare del paese. Lasciato un libro di poesie “La vita non ha meta”, pubblicato a Brescia nel 1978, dove il rapporto con una concezione pessimistica dell’esistenza è mediato dalla continua ricerca di situazioni e di quadri di vita popolare pieni di vivacità e allegria. Ci lascia un altro libro di documenti di vita “Tutto è destino” (Edizioni Vittorietti, Palermo, 1983), dove, attraverso l’analisi di una serie di fatti drammatici dei quali è stato osservatore o protagonista, egli si chiede se esiste, dietro a tutto, l’oscura mano del destino, del caso, o se è plausibile la spiegazione religiosa della volontà di Dio. Allo stesso tema è legata la narrazione dell’avvento del fascismo in Sicilia, quella di una serie di vicende locali di mafia e il racconto e la personale testimonianza della sua partecipazione alla guerra civile spagnola. Ci lascia infine il ricordo di una persona sensibile, piena di umanità, dotata di una genialità che, in altro ambiente e con altri mezzi, avrebbe potuto meglio esprimersi, costantemente partecipe alla vita culturale e civile del suo paese, chiaro esempio di coerenza e di dignità morale, in un tempo che troppo spesso dimentica questi valori.
Con l’occasione di questa ultima pubblicazione la famiglia ha reiterato all’Amministrazione Comunale di Terrasini la richiesta di intestazione di una via.
Un episodio del libro, in cui si racconta la vicenda del sindaco di Piana degli Albanesi Francesco Cuccia, durante il primo viaggio di Mussolini in Sicilia.
1924. In Sicilia vi erano alcuni capi mafia che dirigevano e davano ordini nelle zone sottoposte al loro controllo. Fra questi boss, o ras, o galantuomini dell’onorata società, vi era un certo don Ciccio che fu anche sindaco del suo paese, nella provincia di Palermo. Da sindaco, d’accordo con le autorità della Provincia, avanzò un progetto di bonifica per l’accentramento delle acque piovane che si riversavano negli avvallamenti dalle colline circostanti, in una grande pianura, proponendo di costruire una diga sul pendio verso Palermo e una centrale elettrica per dare luce alla città e alla provincia. Il progetto venne approvato; dato lo stanziamento si parlava di dare gli appalti.
A questo punto, spuntò don Ciccio nella sua qualità di sindaco, bloccando ogni decisione e dicendo che per il bene della impresa pubblica e del paese, si sarebbe interessato lui a dare gli appalti a ditte di sua fiducia. Infatti, come sindaco e… come don Ciccio, tutto gli fu affidato con massima fiducia. Egli scelse le ditte che diedero il via ai lavori, quasi tutti i capi squadra, assistenti, marcatori, geometri e ingegneri, anche questi di sua fiducia. Direttamente le cose si presentavano così, ma indirettamente, si sapeva che le ditte lavoravano per don Ciccio facendo da prestanome, e che tutte le forniture venivano fatte sempre con lo stesso giro. Comunque, nessuno si ribellava all’orario di lavoro e alle paghe perché tutto veniva stabilito da don Ciccio. I lavori si avviavano alla fine e tutto andava a gonfie vele senza alcun intralcio. Anche i mezzi finanziari arrivavano in tempo.
Per l’inaugurazione del lago, don Ciccio nella qualità di sindaco del paese, d’accordo con il Prefetto della Provincia, pensò di invitare S.E. Benito Mussolini, capo del governo, a inaugurare uno dei primi e il più grande lago artificiale fatto in Sicilia sotto il governo fascista. L’idea fu gradita dal Prefetto ed insieme andarono a Roma da Mussolini, il quale accettò volentieri l’invito.
Si suol dire spesso, e così diceva anche don Ciccio, che degli sbirri non bisogna fidarsi mai ma egli si fidava anche troppo del Prefetto. Infatti, sicuro di avere un grande amico che amministrava la polizia della provincia di Palermo, spesso si confidava con lui e qualche volta per attirarsi di più la fiducia a secondo i suoi scopi, lo informava di certe cose che potevano nuocere alla giustizia ma, soprattutto, a lui personalmente. L’amicizia si spingeva di più anche perché tornava comodo al Prefetto avere un amico e collaboratore così importante. Data l’intimità, don Ciccio aveva creduto opportuno di “fare San Giovanni” col Prefetto, facendosi tenere a battesimo un figlio. Il Prefetto, data la personalità di don Ciccio, non se lo fece dire due volte, e così, i loro rapporti si intensificarono.
Abbiamo detto che Mussolini accettò l’invito: era la prima occasione di andare in Sicilia e potere conoscere almeno in parte, tutto quello che si diceva sulla cronaca nera dei giornali del continente, dove si descrivevano le criminose gesta della mafia. Mussolini, accettando l’invito, disse al Prefetto ed al sindaco:
“Verrò a Palermo, ma voglio che non si sappia. Niente stampa e niente manifestazioni: fate pattugliare dalla polizia la strada che porta al lago ma senza dire per chi”.
Don Ciccio che di già si sentiva arrivato tanto in alto, fattosi avanti e con una certa padronanza di sé, disse, con quell’accento tipico che si distingue fra tutti gli accenti dialettali:
“Eccellenza, voi venite e non abbiate nessuna paura. Mio compare il Prefetto sa il fatto suo e io so il fatto mio. Lui ha i suoi bravi uomini e io ho i miei. State tranquillo che nessuno si permetterà disturbarvi. Anzi, se posso avere l’onore, vi invito tutti e due a pranzo a casa mia”.
Il Prefetto ci rimase male davanti alla sfrontatezza di don Ciccio e al suo atteggiamento di protettore, ma siccome, come capo della polizia era abbastanza fine e furbo, senza farne accorgere a don Ciccio, fece un lieve cenno a Mussolini come per dire: “Lasciate dire ed accettate che al resto penso io”.
Dopo avere fissato la data dell’inaugurazione, il Prefetto e don Ciccio ritornarono a Palermo. Tutto si svolse secondo gli ordini di Mussolini. L’inaugurazione della diga, il pranzo a casa di don Ciccio, il ritorno a Palermo, sempre in incognito, poiché né fotografi né giornalisti potevano intervenire senza il consenso della polizia. Però, don Ciccio, dovendo dimostrare la sua potenza, aveva riunito tutti i suoi capizona e dato loro disposizione di riunire a loro volta tutti i picciotti di fiducia per quel giorno e di controllare tutta la strada dall’uscita dalla città di Palermo fino al paese. Tutto venne eseguito a puntino.
La presa di posizione di don Ciccio non fu del tutto gradita al Prefetto perché non si aspettava che il compare Ciccio avesse mantenuto la parola di mettere i suoi uomini a presidiare la via. Difatti, non appena i commissari con i loro nuclei di polizia incominciarono a dislocarsi lungo la stradale, si trovarono di fronte alcuni uomini vestiti per lo più con abiti di velluto stile montanaro, alcuni a cavallo di giumente e di mule che andavano su e giù armati con fucili da caccia. Al primo incontro ci fu il chivalà da parte della polizia, ma, all’intimazione fatta dal Commissario, uno degli uomini di don Ciccio si fece avanti e disse:
“Comandante, siamo qui di servizio per ordine del commendatore don Ciccio nostro sindaco. Abbiamo ordine di controllare la strada e fare spalla alla polizia perché aspettiamo un pezzo grosso del governo”.
La voce di questo incontro si diffuse subito da ambo le parti e tutto andò bene. Però, come abbiamo detto, il provvedimento di don Ciccio non fu gradito dal Prefetto in quanto, lungo il viaggio, seduto al fianco di Mussolini in una vettura quasi coperta dai lati, poté notare che anche Mussolini si era accorto del comportamento spavaldo di quegli uomini. Quegli uomini, anziché fare da spalla, avrebbero potuto aprire il fuoco anche per il solo capriccio di regolare le cartucce per le loro armi, come avevano fatto in altri casi, anche contro la polizia. In quella occasione, il Duce ebbe modo di potere vedere, sentire e capire come stavano le cose in Sicilia e proprio da questi rilevamenti vennero fuori i provvedimenti drastici con l’incarico al Prefetto Mori e per conseguenza agli altri prefetti delle province siciliane, di dare il colpo di grazia per stroncare la delinquenza e la mafia siciliana. Qualsiasi governo, e in qualsiasi epoca, quando non vi sono interessi da parte di uomini politici, può stroncare qualsiasi organizzazione criminosa o di mafia. Il governo fascista, dal momento che aveva messo fuori legge tutti i partiti politici e, fra questi, anche quei partiti diretti e sostenuti da uomini appartenenti alla mafia, poté avere mano libera nel condurre alcune iniziative. Per ordine del governo, furono nominate le commissioni d’inchiesta. Incominciarono così gli arresti in massa e, non mancarono gli abusi: quando le autorità inquirenti non riuscivano ad arrestare il ricercato, arrestavano quasi tutti i membri della famiglia, fino a quando non si fosse presentato il reo. Questo sistema, poco ortodosso, ai fini del diritto civile, influì molto a stroncare il banditismo e la mafia.
Anche don Ciccio come sindaco, si trovò coinvolto nella mischia degli arresti, proprio per ordine del compare Prefetto. Attraverso certe voci dei paesani di don Ciccio, si è saputo che quando il Prefetto ricevette l’ordine di fare arrestare tutti i capi mafia, lesse nelle liste anche il nome di don Ciccio. Per un certo scrupolo di coscienza e anche per la sua stessa carica di Prefetto, credette giusto parlarne personalmente con Mussolini, il quale, tenendo conto della situazione delicata in cui si trovava il Prefetto, rispose:
“Sappiate, eccellenza, che la legge punisce i favoreggiatori dei criminali; quindi, la legge deve essere uguale per tutti. Anzi, per riconoscenza alla bella accoglienza fatta da don Ciccio, salviamogli la vita arrestandolo per primo. Come sapete, molti sanno dei rapporti intimi che corrono tra voi e don Ciccio e potrebbero fargli la pelle prima che sia arrestato”.
Don Ciccio la prese male. Fu costretto a scontare molti anni di carcere e quello che lo addolorò di più, in tutto il tempo che rimase dentro, fu il fatto che era stato tradito da suo compare. Era solito raccontare ai suoi compagni di carcere questo l’aneddoto:
“Vi racconto la storiella del testamento di un certo Paolo Giammona fatto a suo figlio. In un passato non tanto remoto, in un paesino di campagna viveva un piccolo proprietario che con il ricavato della piccola azienda agricola portava avanti la famiglia composta da padre, madre e da un unico figlio. Quel capo famiglia, in paese era considerato un uomo saggio e stimato da tutti per le sue opere di bene e di paciere in casi di divergenze tra amici. Nell’età avanzata, decise di fare testamento di ciò che possedeva a favore di suo figlio, già sposato. Andò dal notaio e dopo avere firmato il testamento, tirò fuori dalla tasca una busta chiusa con un poscritto: “Ultimo testamento da aprire dopo la mia morte”.
Consegnò la busta al notaio pregandolo di metterla insieme al testamento e tenere tutto in deposito nel suo studio per consegnarla poi al figlio dopo la sua morte. Quando morì, il figlio, dopo i funerali, trascorsi alcuni giorni andò dal notaio. Questi gli lesse il testamento e poi gli consegnò la busta chiusa. Aprì la busta e vi trovò un foglio, scritto con una calligrafia piuttosto sgangherata, con i seguenti consigli:
“Figghiu mio, si vuoi viviri ‘nsanta paci ti cunsigghiu di nun fari icchineddi davanti a porta, nun fari sangiuvanni cu li sbirri e nun cunfirari mai cosi a la muggheri” (Figlio mio, se vuoi vivere in santa pace, ti consiglio di non fare sedili davanti alla porta, di non fare comparato con gli sbirri e di non confidare mai cose alla moglie).
L’erede domandò al notaio se avesse capito il significato di quelle parole; il notaio rispose di no, ma che possibilmente si trattava di un tema da svolgere. L’erede di quel testamento filosofico non si dava pace chiedendosi cosa intendesse dire suo padre. Noncurante dell’avvertimento, tentò di svolgere il tema facendo tutto l’opposto di quanto scritto nel testamento. Per prima cosa fece costruire un sedile in pietra (icchinedda) addossato al muro lateralmente alla porta di entrata. Dopo alcuni giorni, mentre era a tavola e mangiava, si accorse che un gruppetto di ragazzini se ne stava a giocare nel sedile rumorosamente, cosa che avveniva quasi in tutte le ore del giorno.
Dopo questa prima scoperta, una mattina presto, prima ancora che facesse giorno, venne svegliato dalla voce eccitata di un contadino che spingeva il suo mulo ad accostarsi al sedile in modo di avere un piano di appoggio per salire in groppa. Anche questo fatto si ripetè ogni mattina, cosicché, poveretto, non poteva più riposare. Ed ecco trovato il significato della prima parte del testamento. Non volendo perdere altro tempo, prese un piccone e demolì il sedile. Da quel giorno tornò il silenzio e la tranquillità dietro la sua porta.
Passati alcuni giorni, pensò di mettere in pratica la seconda parte del testamento cioè: “Nun fari sangiuvanni cu li sbirri”. Dovendo svolgere quest’altro tema, fece di tutto per fare amicizia con una guardia giurata di quei tempi e si prestò a battezzargli un bambino. Il comparato filava in ottimi rapporti, e non si verificava niente che potesse avere richiami col testamento.
Pensò allora di mettere in pratica la terza parte, cioè “Nun cunfirari cosi a la muggheri”. Dovendo svolgere quest’altro tema, escogitò un finto delitto nella sua tenuta di campagna vicino al paese. Senza far capire niente alla moglie, prese una camicia e un pantalone vecchi, se li portò in campagna, li riempì di paglia facendone un pupazzo e lo collocò sotto un albero di pere, sostenendolo con una canna, in modo che al minimo urto poteva cadere a terra. Di solito la moglie, di pomeriggio, lo andava a trovare al campo e poi la sera tornavano a casa insieme. Nella tenuta c’era una casetta che serviva per riporre gli attrezzi di lavoro. Quando la moglie lo andava a trovare, si fermava nelle casetta e ne curava la pulizia. Era un pomeriggio abbastanza caldo e si fermarono lì a godere un po’ di fresco sino a tarda sera. Ad un certo punto, il marito finse di aver sentito un rumore verso il frutteto. Prese per mano la moglie e la fece entare in casa, poi prese il fucile e si inoltrò verso il frutteto. Dopo che si era allontanato un centinaio di metri, sparò un colpo al pupazzo che colpito cadde a terra. Ritornato dalla moglie, fingendosi tutto sconvolto, disse che aveva ucciso un ladro che stava rubando le pere. Impose alla moglie di stare calma e zitta. Poi prese una zappa e disse: “Vado a seppellire il cadavere”. Invece seppellì il pupazzo. Tornati in paese, la povera donna non osava mettersi a letto tanto era terrorizzata.
Il mattino seguente, il marito fingendosi alquanto preoccupato, le raccomandò di starsene in casa e di non dire a nessuno il fatto della sera avanti, neanche al confessore. Rimasta sola in casa la poverina non si dava pace dell’accaduto ed era indecisa se andare dal confessore oppure andare da suo compare il poliziotto a raccontargli tutto, anche perché essendo egli un uomo di legge poteva darle qualche consiglio in caso fosse stato scoperto l’omicidio.
Decise di andare dal compare, il quale, dimostrandosi dispiaciuto, le consigliò di non dire niente a nessuno e di starsene in casa. Poi, non appena la comare se ne andò, fregandosi le mani esclamò:
“Guarda guarda, una bella occasione per fare un servizio speciale e guadagnarmi la promozione che aspetto da tanto tempo”.
E senza perdere altro tempo, si recò dal suo comandante a denunciare il fatto, dimenticando il comparato. Immediatamente il comandante mobilitò la pattuglia compreso il compare, per andare a fare il sopralluogo. Arrivati sul posto, trovarono il Giammona che lavorava la terra tranquillo. Costui, quando vide la pattuglia che si agitava attorno alla casetta, smise di lavorare e si avvicinò salutando rispettosamente il comandante e le guardie e fingendo di non vedere il compare.
Dopo avere scambiato alcune parole, il comandante gli domandò se la sera precedente fosse rimasto lì e se aveva sentito sparare qualche fucilata. Il Giammona rispose di sì e disse di avere sparato lui per spaventare qualche malintenzionato che volesse rubargli la frutta. Il comandante lo contestò, accusandolo di avere ucciso un uomo e di averlo seppellito sotto un albero: nello stesso tempo, gli impose di accompagnarlo sul posto e disseppellire il cadavere.
Arrivati all’albero di pere e vista la terra smossa, credettero vi fosse veramente il morto. Il compare sbirro volendosi rendere ancora più zelante, andò a prendere la zappa del compare e si mise a scavare. Con sorpresa di tutti, anziché trovare un cadavere, venne fuori un pupazzo: Giammona, vedendo il compare sudato per la fatica e tutto eccitato per la burla, scoppiò a ridere e contemporaneamente soddisfatto di se stesso, rivolto al comandante disse:
“Finalmente sono riuscito a capire il testamento di mio padre”.
E raccontò al comandante il tema dei tre consigli lasciatigli in eredità.
Pubblicato su antimafiaduemila.com
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