È stata ripercorsa la vicenda di Giuseppe Gulotta, ritenuto uno dei responsabili del duplice delitto di due carabinieri uccisi nel 1976 presso la casermetta di Alcamo Marina. Un’odissea giudiziaria durata quasi quarant’anni, se si tiene conto che, ancora oggi Gulotta non ha ricevuto alcun risarcimento per gli anni passati in carcere. La parte tra virgolette, che si riporta, si trova nel libro Era di Passaggio in un articolo dal titolo “Storia di un depistaggio continuo”:
Una strage a sangue freddo, della quale, all’inizio furono incolpati quattro alcamesi (Gulotta, Santangelo, Ferrantelli, Vesco) e un partinicese (Mandalà). Dei cinque Mandalà è morto in carcere di cancro, Vesco, come scritto da lui stesso alla madre, “è stato suicidato” sei mesi dopo il suo arresto, impiccato alle sbarre della sua cella, malgrado avesse un braccio solo, Gulotta, massacrato di botte, assieme a Ferrantelli e Santangelo, è stato costretto a confessare un delitto che non aveva commesso , è stato condannato all’ergastolo e liberato dopo 26 anni, perché riconosciuto innocente, grazie alla dichiarazione di uno dei carabinieri che lo avevano torturato per estorcergli la firma sulla confessione: gli altri due sono scappati in Brasile.
Ma il caso di Vesco è ancora più inquietante: si è detto che era un anarchico, ma forse neanche lui sapeva di esserlo. Venne arrestato alcuni giorni dopo il delitto, perché trovato in possesso di una pistola; durante una sua precedente detenzione al carcere di Favignana avrebbe frequentato un brigatista rosso che gli avrebbe fatto “prendere coscienza”, anzi, come si dice oggi, lo avrebbe “radicalizzato”. Chi conduceva le indagini, , si è lanciato a testa bassa verso un’ipotetica pista rossa incolpando prima le Brigate Rosse, che hanno subito smentito, e poi effettuando una serie di perquisizioni presso le case di esponenti noti di estrema sinistra, cinque a Castellammare e tre a Cinisi, compresa quella presso la casa di Peppino Impastato.
Si legge su qualche giornale che Peppino avrebbe raccolto in una “cartelletta” elementi riguardanti la strage di Alcamo e che quella specie di dossier non si è più trovato. Di vero c’è solo che i compagni di Castellammare e quelli di Cinisi, vicini a Lotta Continua, scrissero un volantino sull’episodio, ma nessuno ricorda l’esistenza di cartellette, né, come è capitato di leggere in un’altra notizia stampa, che Peppino raccogliesse elementi da trasmettere sulla sua radio, anche perché in quel periodo Radio Aut non esisteva ancora. Il pentito Vincenzo Calcara, al processo per Gullotta ha sostenuto che i due ventenni carabinieri furono uccisi perché avevano fermato un mezzo con un carico di armi destinate all’organizzazione parafascista Gladio, che, nella zona limitrofa, a Castelluzzo, aveva una base con un piccolo aeroporto. Secondo le dichiarazioni di Calcara i due militi sarebbero stati uccisi da emissari della mafia alcamese, su probabile ordine di esponenti di Gladio. Del tutto strana la scoperta del delitto, fatta dagli uomini della scorta di Almirante che, trovandosi di passaggio, alle sette di mattina, da quelle parti, guarda un po’, videro la porta della casermetta aperta, si fermarono, vi entrarono e trovarono i cadaveri. Ma qua passiamo nel profondo giallo e l’ipotesi di un accordo tra mafiosi e neofascisti prenderebbe corpo, magari collegando il fatto che la moglie del capomafia di Alcamo Vincenzo Rimi, era sorella di Teresa Vitale, moglie di Gaetano Badalamenti. E si aggiungono altri curiosi elementi: sul sito M News.it del 16 febbraio 2012 leggiamo che la “perquisizione a casa di Peppino Impastato venne condotta da un uomo di fiducia del capitano Giuseppe Russo: il nome del militare oggi in congedo, al momento top secret, è al vaglio degli inquirenti”, ma si tratta dello stesso che partecipò agli interrogatori degli arrestati per la strage di Alcamo Marina. E chi è il colonnello Giuseppe Russo? Secondo il pentito Francesco Di Carlo “La stazione dei carabinieri di Cinisi non li disturbava ai mafiosi, facevano finta di niente perché ci avevano fatto parlare il colonnello Russo. Al colonnello Russo ci avevano fatto parlare i Salvo e Tanino Badalamenti e si comportavano bene”. Anche secondo il pentito Francesco Onorato “era risaputo che il Badalamenti avesse nelle mani i carabinieri del territorio di sua pertinenza”. La cosa, se vera, avrebbe una sua possibile spiegazione nel fatto che Luciano Liggio aveva deciso di eliminare il colonnello Russo, ma Gaetano Badalamenti si era opposto. La notizia è confermata da Giovanni Brusca. In tal senso Russo si sarebbe sdebitato nei confronti di chi lo avrebbe salvato, anche se lo stesso sarà ucciso alcuni mesi dopo, (20 agosto 1977) nel bosco della Ficuzza, a Corleone, assieme all’insegnante Costa.
E così abbiamo vari elementi per fantasticare: Russo, o un suo uomo di fiducia, conduce le indagini ad Alcamo e compie la perquisizione a casa di Peppino, Russo è molto vicino a Badalamenti, cognato del boss di Alcamo Rimi, che avrebbe deciso l’eliminazione dei due carabinieri, testimoni di un passaggio di armi dalla mafia a Gladio, oppure da Gladio alla mafia. Tutto questo non vuol dire niente o ben poco se non ci sono riscontri che consentano di andare oltre le coincidenze o le presenze comuni.
Di sicuro c’è che, sulla linea dettata a suo tempo da Carlo Alberto Dalla Chiesa a Palermo, c’è stata per un certo periodo la tendenza a cercare terroristi e ritenerli colpevoli: Russo e Subranni hanno ereditato questa direttiva. Vittime di ciò sono stati i militanti di estrema sinistra, oppure coloro ai quali è stata data frettolosamente questa identità. Non si è tenuto conto che difficilmente il terrorismo “rosso” avrebbe potuto attecchire in Sicilia, dove il mercato delle armi è in mano mafiosa e le scelte di estremismo politico sono facilmente identificabili. Gravissimo il modo di condurre le interrogazioni da parte dei carabinieri, attraverso torture e sevizie degne di dittature sudamericane, e di depistare le indagini, pur di dare in pasto all’opinione pubblica un colpevole. Già Danilo Dolci, denunciava, sin dai tempi della banda Giuliano una tortura, praticata nelle caserme, quella della “cassetta”, consistente nel costringere il prigioniero a bere acqua e sale, sino a sentire scoppiare lo stomaco. Lo stesso sistema, pare che, quasi trent’anni dopo fosse stato praticato alla caserma di Alcamo.
Sulla puntata del 14 gennaio si è potuto notare che non c’è stato nessun cenno di ricerca del colpevole né alcun riferimento a mafia, fascismo e servizi deviati, la cui presenza caratterizza questa vicenda. L’ennesimo esempio di giornalismo ingessato, al quale è stato appena concessa una diversione con l’accenno ai carabinieri torturatori. Per tornare a Peppino, malgrado alcuni maldestri tentativi di tirarlo dentro, in questa vicenda c’entra molto di striscio, per essersene occupato ed avere subito una perquisizione.
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