Sequestro di beni per 150 milioni che non sono tali, ad Andrea Impastato, deceduto due anni fa

Ormai, nel campo dell’antimafia, i titoloni sono all’ordine del giorno, ma nascondono storie vecchie: il 28 agosto scorso è spuntato sui giornali il titolo: “Confiscati beni per 150 milioni di euro a un imprenditore di Cinisi”. Si tratta di Andrea Impastato, al quale la confisca era stata fatta nel maggio del 2020 a dodici anni dal primo sequestro e che adesso diventa definitiva. La storia è quella di sempre, raccontata dallo scrivente nel suo libro “In nome dell’antimafia”, pubblicato nel 2021 e ripetuta ogni volta che il procedimento giudiziario è andato avanti. Nel frattempo Andrea Impastato è morto, da uomo libero, nel 2022 e la grana è passata nelle mani dei suoi figli, che comunque non hanno in mano niente da tempo, perché tutto è in amministrazione giudiziaria e probabilmente continuerà ad esserlo per parecchio altro tempo: infatti l’Agenzia dei Beni Confiscati e Sequestrati alla Criminalità mafiosa è molto lenta e incapace di procedere alla gestione immediata dei vari beni confiscati, i quali rimangono a tempo indeterminato nelle mani di amministratori giudiziari, quasi si trattasse di un “vitalizio”, come diceva il compianto prefetto Caruso. Il circuito è sempre quello in cui si muoveva la Saguto, con il suo “cerchio magico” di complici, poiché le regole non sono cambiate, salvo qualche modifica a suo tempo voluta nel Codice Antimafia del 2017.

La storia

Nell’ottobre 2002 Andrea Impastato venne arrestato per associazione mafiosa dopo un’indagine della Mobile di Palermo, al termine di una lunga indagine della squadra mobile di Palermo. Nei guai era finito per i suoi rapporti con un altro “uomo d’onore” di Cinisi, Pino Lipari, prestanome prima di Badalamenti e poi dei Reina e di Provenzano, nel periodo in cui venne ucciso Peppino Impastato e nei successivi anni della guerra di mafia tra i Corleonesi e i Badalamentiani. L’8 giugno 2005 Impastato è stato condannato dalla Corte d’Appello di Palermo a 4 di reclusione, all’interdizione dai pubblici uffici per anni 5 e libertà vigilata per un anno, colpevole di associazione mafiosa. Da oggi il provvedimento è definitivo.

Con l’arresto di Lipari e il sequestro dei suoi computer, il cui contenuto, malgrado la cancellazione dei dati la polizia era riuscita a ricostruire, si trovò che “u sinnacheddu”, questo era il soprannome con cui era conosciuto Andrea Impastato, al quale era stato ucciso il fratello Luigi nel 1981, era un prestanome di beni riconducibili a Bernardo Provenzano e a Salvatore Lo Piccolo: pertanto era scattata una condanna, in appello, a quattro anni di reclusione. Il 5 gennaio del 2008 è scattato il sequestro dei beni poi diventato confisca il 22 maggio 2020. I beni vennero allora stimati, in 150 milioni di euro, realizzati dai fratelli Impastato, figli di Andrea, grazie alla loro intraprendenza e alle loro capacità imprenditoriali, ma, secondo le indagini della G.d.F. con molte ombre sulla lecita provenienza dei capitali investiti. Il provvedimento di sequestro individuava diversi immobili e appezzamenti di terreno da Carini a San Vito Lo Capo, il Mercatone Uno di Carini, cinque ulteriori aziende, tutte del mondo dell’edilizia, la più grossa delle quali la Medi.tour, che si occupava della gestione della cava di Montelepre, ma c’èra anche la IN.CA.S, la “Prime Iniziative”, la Paradise. A San Vito, in contrada Calamancina c’era e c’è il residence “Il Baglio”, con 27 villette. Amministratore giudiziario dei beni, e quindi anche della cava era nominato Salvatore Benanti.

La Icocem

Due dei quattro figli di Andrea Impastato, Luigi e Giacomo erano, in origine, dipendenti di una cava di pietrisco sita in territorio di Montelepre, di proprietà dello stesso Impastato. Nel 2011, su decisione del tribunale, i due fratelli vengono licenziati, ma non si perdono d’animo e creano una nuova società, la Icocem, con sede a Carini, riconquistando, a poco a poco, buona parte del mercato che si riforniva nella loro ex cava. Riescono anche a “rifarsi” una verginità denunciando al magistrato diversi tentativi di richiesta del pizzo e iniziando una fitta collaborazione con le autorità, sino all’arresto di alcuni estortori. Da parte sua Benanti, che si presenta episodicamente alla cava di cui è amministratore, in una sua relazione accusa gli Impastato, diventati diretti concorrenti della loro ex cava di cui è amministratore, di associazione mafiosa, cioè di avere costituito la loro azienda con i soldi, di provenienza sospetta, del padre. Con strana sollecitudine il tribunale dispone il sequestro della Icocem, la dott.ssa Saguto ne affida l’amministrazione allo stesso Benanti, il quale mette in liquidazione la società che è chiamato ad amministrare e che si trova nelle vicinanze della cava, ormai diventata “sua”. Nel frattempo vengono licenziati i 20 operai che lavorano nella cava, e alcuni vengono riassunti “a tempo”, secondo le richieste di materiale da parte delle imprese di costruzione del territorio. Gli Impastato intanto presentano ricorso, con una loro relazione, nella quale è dimostrata la tracciabilità e la regolarità di tutte le operazioni che hanno condotto alla creazione della loro società, ma l’udienza, che avrebbe dovuto svolgersi ad ottobre 2011, per indisposizione della dott.ssa Saguto è rinviata a ripetizione, sino ad arrivare ai nostri giorni, allorchè è stata chiesta una proroga dagli stessi Impastato, per predisporre e presentare una perizia di parte diversa da quella presentata dai periti nominati dalla Saguto.

Pare che il compenso di Benanti per l’amministrazione delle aziende sequestrate sia di 15 mila euro al mese, e se sommiamo questa cifra per gli otto anni in cui è rimasto, arriviamo a un milione e mezzo di euro, in pratica un ricco stipendio pari o superiore a quello di un deputato. La sola Icocem, di cui ormai non esiste quasi più nulla, gli frutta 8 mila euro ogni tre mesi. Per 5 mila euro l’anno vengono invece affittate le villette di San Vito il cui valore di locazione, specialmente nel periodo estivo, potrebbe anche arrivare a mille euro la settimana. Per amministrare tutto ciò Benanti si serve di coadiutori, con uno stipendio mensile di 3 mila euro. Tra questi ha un ruolo importante, come direttore della cava, Grimaldi, figlio di Fulvio, Cancelliere dell’ufficio misure di Prevenzione, cui è stato ucciso il figlio, anche lui direttore di una cava, la Buttitta, amministrata da Cappellano Seminara. Nella gestione della cava, specie nel trasporto del materiale edile, si è preferito lasciar marcire i mezzi in dotazione e affidarsi ai cosiddetti “padroncini”, cioè a proprietari di altri mezzi, che lavorano con altre cave, poichè si ritiene che il noleggio dei mezzi ha costi inferiore all’uso dei mezzi di proprietà della cava. Il poco personale rimasto si lamenta delle videocamere di sorveglianza, disseminate dappertutto, della poca disponibilità di spazi, pieni di mezzi inutilizzati e abbandonati, della facilità con cui vengono erogate sanzioni e multe a lavoratori il cui torto è quello di chiedere di far valere i propri diritti, dell’obsolescenza dei mezzi di lavoro e della mancanza di sicurezza.

La Unicem

Il 10 maggio 2017 Salvatore Benanti è stato “rimosso”, ma l’odissea dei figli di Andrea Impastato non è finita, perché il 16 ottobre 2017 una nuova tegola cade sulla testa di Giuseppe e Stefano con una nuova ordinanza di sequestro di beni stimati, secondo le solite cifre gonfiate, in 1.500.000 euro e comprendente la Unicem, nuova società intestata ai due fratelli, la Adelkam di Alcamo, di proprietà per il 70% di Giuseppe Impastato e per il 30% della signora Mistretta Giovanna, moglie di Vito Cammarata, dipendente e socio dei fratelli Impastato. Sequestrati anche numerosi veicoli e macchinari, oltre a conti correnti per un totale di 80.000 euro e assegni bancari per 133 mila euro. Secondo la Procura dietro i due fratelli c’è ancora l’ombra del padre e quindi l’utilizzo delle sue sostanze di dubbia provenienza. Tutto questo mentre il CGA, con una sentenza del 15 settembre 2017 ha accolto un ricorso avanzato dai fratelli Impastato avverso all’informazione interdittiva emessa dalla prefettura di Palermo nei confronti della Società, ritenendo che essi, con buona ragione, potevano essere iscritti nel casellario informatico dell’Agenzia Nazionale Anticorruzione.
L’avvocato dell’Aira, legale degli Impastato, ha rilasciato allora una dura dichiarazione: “Bisogna fare ricadere sui figli e per sempre le colpa del cognome che portano? Il provvedimento di sequestro ci sorprende. I figli non sono mai stati direttamente coinvolti in nessun processo… Il presupposto è che, oltre a non risultare cointeressenze paterne nell’azienda dei figli, il padre risulta avere mantenuto negli anni passati una condotta moralmente integerrima. Cosa dovrebbero fare i giovani Impastato, accettare di non poter più fare un lavoro onesto solo per il cognome che portano? Rifugiarsi nel comodo sottobosco dell’illegalità? Da nessuna parte peraltro – continua il legale – vi è alcun riferimento ad ingerenze del padre nella vita o nelle aziende dei figli. Gli stessi figli che si sono costituiti parte civile e sono destinatari di risarcimenti dai presunti mafiosi che li hanno estorti come nel caso del processo a carico di Diego Rugieri (la cui sentenza di appello è prevista proprio per oggi). Senza contare che la stessa sentenza di condanna che ha colpito il padre ha stabilito il suo allontanamento dagli ambienti mafiosi sancito dalle sue successive denunce contro gli esattori del racket datandolo tra la fine del 2008 ed il 2009. Cosa può entrarci l’azienda dei figli nata nel 2014 ?”

L’ultima confisca
Andrea Impastato, ha scontato sei anni di carcere per associazione mafiosa, è stato sottoposto per otto anni in regime di libertà vigilata e ha lavorato da volontario in una società onlus di Cinisi, dimostrando di avere definitivamente chiuso i conti con il suo passato. Il 6 giugno scorso il Tribunale di sorveglianza di Palermo ha dichiarato “cessata la pericolosità sociale, revocando la misura di sicurezza”. Ma a quanto pare tutto questo non è stato sufficiente al presidente dell’Ufficio Misure di prevenzione Raffaele Malizia, succeduto alla Saguto. Nel decreto di confisca del patrimonio iniziale , spacciato per 150 milioni, è rimasto ben poco: i vari punti commerciali e le attività, soprattutto quelle legate al commercio del calcestruzzo, sono state chiuse da tempo e gran parte delle risorse iniziali sono state “disperse” o “succhiate” dagli amministratori giudiziari. Non sono da escludere ulteriori strascichi giudiziari, mentre i due nuovi amministratori giudiziari si stanno adoperando per rimettere in sesto la cava e hanno ripreso il progetto di apertura di una nuova attività estrattiva, riuscendo a salvare il posto di lavoro ai pochi operai rimasti al loro posto.
Alla fine di questa lunga via crucis giudiziaria, l’appello alla confisca fatto dai legali degli Impastato è stato respinto e si è proceduto alla definitiva confisca.

Insomma, pare di capire che la conclusione di questa amara vicenda è che collaborare con la giustizia per mettere fine al triste sistema delle estorsioni, non serve a niente, poiché non ci si potrà mai sottrarre al sospetto che la collaborazione serva come copertura per evitare il sequestro e la successiva confisca. Anche l’iscrizione dei fratelli Impastato a Liberjato, associazione antiracket legata a Libero Futuro, non è servita, dopo che Liberjato è stata sospesa dalla prefetta De Miro, (settembre 2017) poiché i suoi imprenditori avrebbero agito sempre con l’intenzione di cautelare i propri beni per evitarne il sequestro. Non è il caso di dire che quest’ultima decisione ha gettato nello sconforto e nella delusione coloro che avevano creduto di associarsi per ribellarsi alle estorsioni. Non se ne esce: le colpe dei padri ricadono sui figli. Unica eccezione, ma solo perchè è stato ucciso, quella di Peppino Impastato, lontano parente di Andrea.

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