Riconversione e disarmo, quelle parole espulse dal dibattito italico

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Riconversione civile e disarmo, tematiche di cui non si parla più

Gli F35, programma aeronautico internazionale che coinvolge (con tutti i governi che si sono succeduti negli ultimi lustri) la Difesa italiana, sono al centro da anni di critiche e contestazioni. In occasione delle elezioni politiche del 2013 ci fu la corsa dei partiti a proclamare che l’avrebbero ridimensionato. O addirittura cancellato. In tempi di campagna elettorale purtroppo da sempre l’italiano è abituato ad ogni sorta di promessa che viene poi, puntualmente, cancellata. E per gli F35 non è andata diversamente. La Rete Italiana per il Disarmo e altre organizzazioni pacifiste hanno prodotto dossier su dossier, denunce su denunce, sulla “qualità” degli aerei e su come quei fondi potevano essere investiti in maniera più fruttuosa. Dal risanamento del territorio di un Paese dove altissimo è il pericolo del dissesto idrogeologico (e la cronaca di questi anni ci ha documentato perfettamente, tra disastri e lutti, quanto questo pericolo sia terribile) alla possibilità di fornire istruzione universitaria gratuita a chi non può permetterselo (in un Paese dove sempre più le disuguaglianze sociali ed economiche aumentano sarebbe una rivoluzione) o alla costruzione e ristrutturazione delle scuole. Gli ultimi dati sulla inadeguatezza al rischio sismico delle scuole italiane, in alcune regioni anche oltre il 50% non rispettano standard di sicurezza contro i terremoti, sono di questi giorni. Ma il j’accuse più forte contro gli F35 non è dei disarmisti e dei pacifisti ma, in un assurdo che supera anche il teatro pirandelliano, de facto della Difesa USA e del governo che più negli anni l’ha sponsorizzato e sostenuto.

Come riportato nel 2014 da Francesco Vignarca su Altreconomia, il 19 settembre 2014 “ alla Lockheed Martin, capofila del programma, è stata accordata una modifica di un precedente contratto, per complessivi 25 milioni di dollari ” per “ intervenire con sistemazioni di post-produzione sugli aerei del lotto VI ”. In più le necessità operative e di supporto annuali triplicano i costi complessivi del progetto. Un paio di anni prima, rivelò sempre Vignarca, uno studio del governo canadese rapportato all’adesione italiana al progetto colloca la spesa complessiva “ per acquisto e gestione di una flotta di 90 aerei ad oltre 50 miliardi di euro ”, praticamente una finanziaria e molto di più di quanto occorre per disinnescare la clausola di salvaguardia sull’Iva annualmente. Ma le criticità economiche non finiscono qui. Sempre dagli USA nel 2014 arrivò un rapporto secondo cui i costi annuali per gli F35 sono dell’80% superiori a 4 diversi aerei già in dotazione all’esercito a stelle e strisce. E anche qui tutto è partito da stime della Difesa statunitense. Sono passati 5 anni e diversi altri dossier sulle criticità, economiche e funzionali, degli F35. Ma, nonostante le promesse elettorali e non solo, il progetto internazionale è andato avanti per l’Italia a gonfie vele. Altri Stati hanno diminuito o azzerato il proprio impegno, il BelPaese no. Al di là delle belle parole retoriche in occasione di cerimonie e anniversari l’impegno per la Pace e il disarmo non esiste più. Basterebbe (per chi ha tempo e soprattutto lo stomaco così forte da sostenerlo) risfogliarsi e riascoltarsi i programmi e dibattiti pubblici degli ultimi anni. Nessuna parola per la riconversione delle spese militari, nessun impegno per la difesa non armata e nonviolenta (nonostante una campagna sostenuta da tantissime organizzazioni e cittadini!). In questi anni sono state tagliate tutte (o quasi) le spese pubbliche possibili, milioni di italiani si sono ritrovati senza assistenza sanitaria e previdenziale. Eppure le spese militari (in una dinamica terribilmente identica alla Grecia massacrata dalla crisi finanziaria e dall’austerity) hanno visto solo balzi in avanti.

Una dimostrazione di quanto disarmo e riconversione sono stati banditi viene dalla Sardegna. La guerra in Yemen e le criminali conseguenze dei bombardamenti dell’Arabia Saudita hanno scalfito il “muro di gomma” del silenzio mediatico. Le denunce di varie associazioni per i diritti umani, e anche di alcune trasmissioni televisive nazionali, hanno mostrato anche in Italia quel che sta accadendo. Alimentando un fragile e debole dibattito in quanto le bombe sganciate in Yemen vengono prodotte anche in Sardegna. Nonostante silenzi, reticenze e un inner circle mediatico di ben altra “sensibilità” (ammesso e non concesso che si possa parlare di sensibilità per chi si schiera con militarismo e guerre), questo dibattito ha prodotto anche conseguenze in Parlamento: il 25 giugno scorso una mozione di maggioranza votata alla Camera ha chiesto al governo di bloccare l’esportazione di alcuni tipi di armi – le bombe d’aereo e i missili – verso i due Paesi fino a che non ci sarà una svolta concreta nel processo di pace con lo Yemen . Nei giorni successivi Rwm, azienda del gruppo tedesco Rheinmetall con sede a Domusnovas, in Sardegna, e a Ghedi, in provincia di Brescia, ha annunciato la sospensione delle licenze per l’esportazione di bombe d’aereo e componenti verso l’ Arabia Saudita e gli Emirati Arabi Uniti. Dopo l’approvazione della mozione parlamentare il Comitato per la riconversione della Rwm si è rivolta alle istituzioni sarde e nazionali, ai sindacati, all’Università e all’imprenditoria “ al fine di promuovere e sostenere la messa in atto di attività alternative a quelle della produzione di bombe ” e per la salvaguardia dei lavoratori che “ non devono subire le conseguenze di un’eventuale chiusura dello stabilimento e conseguente delocalizzazione ”. Davanti a questo scenario ci si aspetterebbe un rilancio della possibilità di riconversione della fabbrica e un ritorno a discussioni su disarmo e alternative alle spese militari. Resistenze da parte di determinati settori politici o, al massimo imprenditoriali. Per motivi ideologici i primi ed economici i secondi. E invece, colpo di scena, la negazione di ogni possibile alternativa all’industria bellica è venuta dai sindacati. Negli Anni Ottanta furono tra i primi in Italia a parlare, e produrre documenti su documenti, sulla riconversione delle spese militari e sul disarmo.

Negli Anni Novanta e Duemila in prima fila nelle manifestazioni pacifiste con i tre sindacati confederali tra i promotori della “Tavola della Pace” e della Marcia Perugia-Assisi. Eppure oggi, nella Sardegna da cui partono le bombe per la guerra in Yemen viene da loro un secco no alla riconversione. Una decisione presa dall’assemblea dei lavoratori l’11 settembre che ha approvato un documento dove si fa riferimento ad “ un’alternativa ” che vada incontro “ alle esigenze della Difesa dello Stato Italiano e dei paesi europei ” e la “ non accettazione di alternative quali la riconversione della produzione ”. Un rifiuto quest’ultimo motivato con il fallimento di passate riconversioni delle industrie minerarie, fatti drammatici per l’intera società sarda che lasciano un senso di smarrimento, indignazione e scetticismo. In conclusione del documento i lavoratori hanno chiesto all’azienda di proseguire gli investimenti programmati. Che i lavoratori siano esasperati e indignati di fronte a rischi, come già accaduto a tantissimi altri in Sardegna e tutt’Italia, per il proprio lavoro è giusto e sacrosanto. Mai sacrificare migliaia di famiglie, mai gettare nel dramma della disoccupazione i lavoratori. Ma stupisce che i sindacati, vicini storicamente anche alle istanze pacifiste, non abbiano ripreso i temi della riconversione pacifica e delle alternative all’industria militare stupisce. Ancor di più alla luce di quanto accaduto lo scorso 1° marzo quando la Camera dei Deputati ha ospitato il Convegno “Produzione e commercio di armamenti: le nostre responsabilità”. In tale occasione Sergio Bassoli (esponente della CGIL e della segreteria della Rete della Pace) ha dichiarato che “ un Paese civile come l’Italia non può vendere le armi ad un Paese come l’Arabia Saudita ” e che “ se si segue la prospettiva secondo cui se non vendiamo noi, vendono altri, andiamo a sbattere ”.

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