Sul Giornale di Sicilia del 5 ottobre 2012, a pag. 16, è pubblicato un articolo di Vincenzo Marannano dal titolo: “Mafia, maxisequestro a un imprenditore”, con il sottotitolo “Nel mirino il patrimonio di Giovanni Simonetti, ritenuto uomo di fiducia di Giovanni Brusca e Totò Riina”. Il sequestro avviene un anno dopo l’arresto di Simonetti, condannato a otto anni per avere incassato 180 milioni di lire destinati a Giovanni Brusca e riguarda beni per un valore complessivo di 10 milioni di euro, comprendendo due imprese agricole, 70 appezzamenti di terreno, 12 unità immobiliari, fabbricati rurali, magazzini, insieme a conti correnti, titoli e polizze assicurative. L’articolo fa riferimento a una precedente condanna, del 1993 e a un precedente sequestro di beni, poi in parte restituiti. L’accusa è di essere un prestanome di Giovanni Brusca, di Totò Riina e dei fratelli Agrigento. Nello specifico avrebbe fatto da intermediario tra Brusca e due imprenditori edili di San Cipirello, Vincenzo Mirto e il genero Ignazio Mustacchia. A costoro Brusca aveva imposto, tra il 1987 e il 1994 una tangente, intimidendoli con roghi, furti e danneggiamenti vari, sino a al momento, dopo una precisa minaccia di morte, in cui si era arrivati a un accordo, con l’esborso di 180 milioni. Mirto avrebbe pagato 150 milioni e il genero altri 30. I soldi sarebbero stati consegnati a Simonetti, che avrebbe fatto da intermediario con Brusca.
Le vicende processuali di Simonetti, erano iniziate nel 1983, allorché venne coinvolto in una vicenda di traffico di stupefacenti in Piemonte, assieme ad esponenti malavitosi siciliani, Simonetti era stato condannato a otto anni di reclusione e a 20 milioni di multa. Nel 1994 lo ritroviamo coinvolto in una vicenda che verrà fuori e andrà a processo solo a partire dal 2004, quando due imprenditori di San Cipirello, Vincenzo Mirto e Ignazio Mustacchia, suo genero, presentano una denuncia per estorsione e raccontano le loro vicende in un contesto criminale che, dalla fine degli anni ’80 era sotto il totale controllo di Giovanni Brusca e del boss di San Cipirello Giuseppe Agrigento. Mirto e Mustacchia riferiscono di numerosi attentati ai loro cantieri, con incendi, danneggiamenti dei locali e dei mezzi di lavoro, per un miliardo delle vecchie lire, e con l’obiettivo di fare “terra bruciata” intorno a loro, perché ritenuti confidenti dei carabinieri. In questo contesto a seguito di alcune affermazioni del Mustacchia, poco riguardose nei confronti del boss Agrigento e a seguito delle richieste estorsive di Giovanni Brusca, annunciate con due gravi attentati, alla fine del ’94, Simonetti avverte Mustacchia con il quale era in buoni rapporti sia di vicinato che di affari, della sentenza di morte decretata nei suoi confronti, da parte di Brusca e di Agrigento, e Mustacchia gli chiede di fare da intermediario. Secondo Simonetti, Brusca avrebbe preteso un miliardo di lire, che, grazie alla sua intermediazione furono ridotti a 200 milioni, più una rata mensile di 5 milioni: Mustacchia avrebbe accettato il pagamento dando a Simonetti, in varie rate, nell’arco di un anno e mezzo, 180 milioni, 150 dei quali pagati dal suocero Mirto e 30 da lui stesso. Simonetti sostiene di avere venduto un proprio terreno e di avere dato a Brusca i restanti 20 milioni di tasca propria, anticipandoli per Mustacchia che, comunque, dopo il suo arresto, non li avrebbe mai restituiti. Su quest’ultima vicenda esiste la testimonianza di Brusca, che afferma di avere ricevuto 200 milioni e quella di Mustacchia, che dice di averne pagato 180. Di lì la condanna a otto anni di reclusione e 800 euro di multa, per estorsione aggravata, con sentenza del 2009 e il successivo sequestro dei beni, da parte del tribunale misure di prevenzione, a firma del giudice Dario Scaletta, collaboratore di Silvana Saguto, nel 2012. Il fatto che la denuncia di Mustacchia sia stata fatta dieci anni dopo, pare sia motivato dalla nuova legge, allora da poco approvata, in materia di usura e di estorsione, che consentiva di accedere a benefici e di ottenere la certificazione antimafia, onde partecipare alle gare di appalto. Nel sequestro emesso dalla sezione misure di prevenzione sulla base delle indagini del nucleo di polizia tributaria della Guardia di Finanza si parte dalla prima e consueta motivazione, ovvero la differenza tra gli investimenti effettuati e i redditi dichiarati e si ipotizza che alcune cessioni di terreno risultavano solo sulla carta, mentre altre sarebbero state girate ai familiari, il tutto per eludere le indagini patrimoniali. Nella sentenza d’appello, per contro si rileva, che dalle risultanze della perizia disposta d’ufficio non esiste “un’apprezzabile sperequazione dei flussi finanziari” e che gran parte dei beni di Simonetti siano riconducibili ad eredità paterna o a transizioni lecite. Quindi buona parte degli accertamenti fatti a suo tempo dal nucleo tributario non erano congruenti con l’esatto valore dei beni.
Nel 2016 il giudice Montalbano, presidente dell’Ufficio misure di prevenzione, con i giudici Luigi Petrucci e Giovani Francolini rigetta la richiesta di applicazione delle misure di prevenzione, della sorveglianza speciale e della confisca e dispone la restituzione dei beni. Il Procuratore della Repubblica si appella a questa decisione, nel febbraio 2016 e successivamente la prima sezione penale delle misure di prevenzione rigetta la richiesta di applicazione delle misure di prevenzione e della sorveglianza speciale avanzata dalla Procura, sino a confermare, nel dicembre 2018 la definitiva restituzione dei beni a Giovanni Simonetti.
La sentenza scritta dai giudici della Corte d’appello Antonio Caputo, presidente, Aldo De Negri e G. Carlo Tomaselli (21 settembre 2018) merita attenzione, sia per i puntuali riferimenti giurisprudenziali sulle normative che regolano le misure di prevenzione, sia per l’indicazione ricorrente di fare riferimento a prove concrete e non solo indiziarie e di non “assurgere al rango di probatio diabolica allorché si tratta di ricostruire attentamente il percorso di provenienza dei beni sottoposti a sequestro”.
La sentenza è motivata, innanzitutto, da una “riformulazione del giudizio positivo di pericolosità sociale, per la “rescissione dei perversi legami tra il soggetto e Cosa Nostra e in assenza di ulteriori significative manifestazioni criminose”. Ne viene fuori il profilo di un elemento “non quale soggetto partecipe del sodalizio mafioso, ma piuttosto come soggetto che proprio per il suo apparente distacco dalla mafia poteva essere utilizzato sporadicamente per attività connesse alla percezione di illeciti proventi”.
Adesso che i beni sono stati restituiti, il sig. Simonetti fa un resoconto di quanto gli sono costati gli anni di amministrazione giudiziaria. L’amministratore giudiziario Diego Vallone, mesi dopo il suo insediamento avrebbe fatto abbattere centinaia di capi di bestiame sostenendo che erano stati colpiti dalla brucellosi, avrebbe operato servendosi della collaborazione di un veterinario e di un agronomo per un ammontare delle spese di gestione pari a 147 mila euro, non avrebbe pagato, grazie alla legge, che consente di poter dilatare i pagamenti nel tempo, i contributi INPS ai dipendenti e i mutui agrari, lasciando numerosi debiti in sospeso che adesso la famiglia Simonetti dovrà ripianare. Secondo una stima soggettiva, il danno ammonterebbe ad oltre 300 milioni di euro. A ciò si aggiungano le conseguenze dell’interdittiva antimafia nei confronti dei figli, i quali non hanno potuto partecipare ad appalti pubblici.
La vicenda di Simonetti pone una precisa domanda: perché, allorché è stato disposto il sequestro, il Giornale di Sicilia ne ha dato notizia e invece non l’ha fatto quando è stato disposto il dissequestro dei beni? È un problema che bisognerebbe girare al principale quotidiano dell’Isola. Noi abbiamo fatto la nostra parte.
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