Il primo omicidio di mafia riconosciuto in quanto tale in Italia è stato quello di Giuseppe Montalbano, medico e patriota che aveva partecipato anche all’impresa dei Mille con Garibaldi, ucciso il 3 marzo 1861 a Santa Margherita di Belice, in provincia di Agrigento. L’ultima vittima invece è Francesco Vangeli, giovane di 26 anni calabrese ucciso dalla ‘ndrangheta il 9 ottobre 2018. Di queste 1002, 96 sono donne e 112 sono minori (di cui 77 bambini tra gli 0 mesi e i 14 anni). Sono 479 quelle senza giustizia. Per quanto riguarda le singole organizzazioni: 491 sono riconducibili a Cosa Nostra; 206 alla ‘ndrangheta; 193 alla Camorra; 57 alla Sacra Corona Unita e alle altre mafie pugliesi; 11 alla Stidda; 2 alla Mafia del Brenta. I dati sono tratti da Wikimafia. Aggiungo una mia riflessione pubblicata nel libro “Mafie” di Antonella Colonna Vilasi. edizione Dissensi 2012 pagg.141-144 )
Si è “offesi” dalla mafia quando si è profondamente feriti in una parte del proprio essere, attraverso la scomparsa violenta di una persona cui si è legati. L’offesa ha il significato di un danno ricevuto, di un vulnus che riesce a scuotere dall’interno le basi della persona colpita. Pertanto vittima di mafia diventa non solo chi è ucciso o chi subisce le conseguenze di un gesto violento, ma anche, oltre al parente o al consanguineo, qualsiasi persona che con la vittima aveva un rapporto di vicinanza, e amicizia. In tal senso Falcone e Borsellino sono già “vittime di mafia” nel momento in cui viene ucciso Rocco Chinnici, cui erano legatissimi, Borsellino è vittima di mafia quando è ucciso Falcone. Il sentirsi “feriti” dalla morte per mano mafiosa di qualcuno che ha dato il suo contributo, anche quello della vita, nella lotta per la legalità, la giustizia o per l’universale soddisfazione dei bisogni esistenziali, è qualcosa che rende “vittime della mafia” anche tutti quei componenti della società civile che credono nella possibilità di una società non violenta.
Se vogliamo poi sezionare il problema consideriamo che esistono vittime della mafia “mafiose”, e vittime “antimafiose”. Le prime sono tali nell’ambito di conflitti interni, regolamenti di conti, lezioni, punizioni, vendette dirette o trasversali, lupare bianche: le “guerre di mafia”, da quella degli anni ’60, iniziata con la strage di Viale Lazio a quella degli anni ‘80, finita con l’egemonia corleonese, hanno seminato certi territori di cadaveri con impressionanti “botta e risposta”, senza esclusione di colpi e al di là di qualsiasi rispetto di regole, spesso senza lasciare neanche il tempo di provar dolore per l’avvenuta esecuzione. Il consolarsi dietro la considerazione che “tanto si scannano tra di loro” non serve a giustificare il delitto, specie quando esso si serve della “pena di morte”, che la delinquenza ammette, lo stato no. In tal senso i superstiti spariscono di scena, diventano “scappati”, si eclissano , covano sogni di rivincita anche per decenni, oppure, con molta spregiudicatezza dimenticano tutto e si schierano con chi le ha resi vittime, in un rinnovato patto per la spartizione delle aree di controllo del territorio e delle chiazze di ricchezza che esso produce.
Esistono poi le vittime di mafia uccise dai mafiosi per la loro attività antimafia, vittime perché possono costituire un cattivo esempio che danneggia l’immagine dell’organizzazione, perché lottano e denunciano speculazioni, affari e accordi torbidi, vittime che usano i poteri dello stato per procedere nell’attività repressiva in certi momenti e in certe situazioni facilmente alleggerita, se non assente, per non parlare di vittime che si ritrovano senza rendersene conto all’interno di una situazione a loro del tutto estranea, (vedi testimoni occasionali, presenze casuali sul luogo del delitto). Qualcuno li chiama anche “vittime innocenti” (il caso più eclatante è quello di Graziella Campagna), come se chi muore per essersi impegnato nella lotta per la mafia sia una “vittima colpevole” cioè responsabile di avere causato la sua fine per colpa di se stesso. Ho colto questo amaro risvolto quando venne ucciso il Procuratore Generale Gaetano Costa: mi trovavo in pizzeria e, quando arrivò la notizia, il commento di una persona che occupava un tavolo vicino fu: “Picchì nun si faceva i fatti suoi?” Come se Costa, nel firmare i famosi 300 mandati di cattura non si facesse proprio i fatti suoi, non facesse il suo lavoro.
È vero che chi paga il peso più alto di un delitto mafioso sono i parenti più vicini, particolarmente moglie e figli. I tempi di rimarginazione della ferita sono lentissimi e spesso non producono alcun risultato apprezzabile. Il dolore scava solchi profondi, si insinua nelle pieghe e nelle regioni più profonde dell’animo, si fa memoria, riproduzione drammatica del vissuto attraverso infiniti rivoli che convergono verso immensi laghi interiori di sofferenza. L’essere privo della persona scelta come compagno e che spesso è l’unico punto di riferimento, l’essere mancante di colui che spiana il percorso della tua vita, che ti dà sicurezza e costituisce il tuo appoggio, finisce col dare al rapporto con la vita un significato interamente trasformato, all’interno del quale la vittima è chiamata ad assumersi responsabilità che prima ignorava, a cercare vie di sopravvivenza, a prendere decisioni che vanno dalla passiva rassegnazione, all’accettazione rancorosa, all’attesa del momento opportuno per riscattare il colpo subito e al cambio radicale dei ritmi di vita. Tutto cambia o acquista una nuova luce, una nuova prospettiva con cui continuare a dare un senso alla vita. Ho avuto la precisa coscienza di questi abissi di dolore una volta che venne ricoverata in ospedale Felicia Impastato: si presumeva che avesse avuto un ictus cerebrale, ma le scoprirono un grumo di sangue in testa di cui non ci si spiegava l’origine: qualche tempo dopo Felicia confessò a sua nuora che quel grumo se l’era causato lei stessa battendosi la testa al muro per la disperazione di essere stata privata del figlio in un modo così feroce.
C’è chi accetta di far “vendetta” attraverso l’impegno sia esso politico che civile, chi porta la sua testimonianza e stimola, attraverso la memoria e l’esempio proprio e della propria vittima sentimenti di ribellione, stimoli di emulazione, proposte educative e formative di una coscienza civile. Il mondo femminile è ricco di figure come, per citarne qualcuna, Pina Maisano, Giuliana Terranova, Giuseppina La Torre, Rita Borsellino, Sonia Alfano, esempi di scelta politica di riscatto e di prosecuzione del lavoro della vittima di cui si è stati privati. Altre, come Felicia Impastato si caratterizzano per la loro grande voglia di avere giustizia e per il proprio messaggio civile trasmesso a chi andava a visitarla. Un lungo elenco di persone normali, diventate, contro la propria volontà, non icone da guardare con religioso rispetto, quasi fuori dalla nostra portata, fuori dalla scelta difficile di far come loro, ma come soggetti normali sulla soglia di un momento storico in cui le regole del silenzio omertoso che ha costituito l’arma più efficace della mafia, vanno saltando giornalmente, le vittime trovano dentro di sé energie insospettabili e decidono di fare scelte impensabili anche per loro stesse, prima che gli assassini decidessero di portare a compimento la loro oscena esecuzione o prima che gli estortori dessero il via alla loro liturgia di minacce e attentati per appropriarsi senza sforzo del frutto del lavoro della gente onesta. Ed è questo il miglior segnale che, sia pure con la lentezza storica con cui si realizzano le metamorfosi sociali più profonde, si sta aprendo una fase in cui i tradizionali equilibri vanno saltando e si aprono spazi di speranza in cui “questa mafia”, cioè quella che attualmente abbiamo imparato a conoscere, è destinata a scomparire. Inutile prevedere cosa avverrà dopo.
Nella foto: Partecipazione degli alunni del Liceo Scientifico di Partinico e di una delegazione del Comune di Partinico alla manifestazione del 21 marzo 2007 organizzata da Libera a Polistena, in Calabria.
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