26 anni per Mauro, 22 per Peppino: alla fine la sentenza è arrivata. Un tempo inumano per chi aspetta giustizia. Due depistaggi delle indagini attraverso tortuosi sentieri e fervide immaginazioni, per nascondere due delitti di mafia: per Peppino le assurde piste dell’attentato terroristico, magari con l’aiuto dei suoi compagni, tra i quali avrebbe potuto nascondersi anche un complice o l’assassino, oppure un suicidio eclatante, per Mauro “l’omicidio in famiglia”, maturato all’interno della comunità Saman, l’immaginata tresca tra Chicca Roveri e Francesco Cardella, che avrebbero deciso l’eliminazione di Mauro. Qualche tossico scoperto, che si sarebbe vendicato, oppure l’accusa ai suoi compagni di Lotta Continua, che l’avrebbero eliminato perché era al corrente di chissà quali notizie sul caso dell’omicidio del commissario Calabresi. E siamo solo al primo grado
Peppino e Mauro si formano all’interno di quel coacervo di idee che cominciano a circolare, a partire dal ’66 negli ambienti politicamente più avanzati della cultura italiana, sino ad arrivare all’esplosione del ’68. Da una parte le lotte studentesche all’università di Trento, quelle degli operai della Fiat, dall’altra le lotte dei contadini di Punta Raisi contro il progetto di costruzione della terza pista, e quelle degli edili. Ma insieme il rifiuto dei partiti politici allora sulla scena, la scelta extraparlamentare a sinistra del PCI, il sogno del comunismo come momento finale della liberazione e della realizzazione dell’uomo, la radicalità delle lotte, la denuncia delle cricche di potere allora dominanti, l’organizzazione delle masse, la scelta non violenta, ma con frequenti tentazioni verso la risposta armata alle continue prevaricazioni del potere. A Cinisi e a Palermo arrivava prima gli echi, poi i fermenti del grande momento di lotta che si diffondeva a macchia d’olio.
Nel 1972 Mauro si trasferisce in Sicilia come responsabile regionale di Lotta Continua, il movimento che egli stesso aveva contribuito a creare, alla fine del ’69. Mauro è affascinato dall’isola: “Mi piace la politica, i siciliani, le siciliane, il mare, lo scirocco… Mi piace l’odore di zagara e quello del gelsomino, i tramonti, le albe…”. A Palermo riesce ad avere un contratto con la facoltà di architettura, dove insegna sociologia, fa conoscere e studiare Reich, Sartre, Deleuze, Foucault, ma il preside lo solleva dall’incarico con una strana e assurda accusa: le sue lezioni sono troppo frequentate e arrecano disturbo all’ordine pubblico. È il periodo in cui matura il colpo di stato in Cile, si scopre il tentato golpe di Junio Valerio Borghese, al quale non era estranea l’adesione della mafia e, in particolare, del boss Badalamenti, si dibatte per il referendum sul divorzio, si pone all’attenzione il problema dei senzatetto e dei disoccupati, sino ad arrivare, il 16 settembre del ’75 all’occupazione della cattedrale di Palermo.
Ed è anche il periodo in cui Peppino aderisce a Lotta Continua, un movimento con forti connotati anarchici, che aveva resistito allo scioglimento dei vari gruppi marxisti-leninisti e di Potere Operaio, che non richiedeva ortodossie ideologiche, che era vicino ai problemi della gente e li affrontava, attraverso il suo giornale, con un linguaggio semplice e non ideologizzato. La matrice libertaria, ma anche le capacità dialettiche e teoriche di Rostagno, gli “attivi politici”, la scelta di una serie di campi d’azione, dai “proletari in divisa”, con conseguente volantinaggio davanti alle caserme, alle lotte cittadine per la casa, alla vigilanza antifascista, ai mercatini alternativi, al tema del lavoro nero degli edili, trovarono Peppino impegnato in primo piano, con l’entusiasmo che lo caratterizzava al momento dell’azione.
Ma lasciamo il commento di questo periodo ai suoi pochi appunti autobiografici:
«Mi trascinai in seguito, per qualche mese, in preda all’alcool, sino alla primavera del ’72 (assassinio di Feltrinelli e campagna per le elezioni politiche anticipate). Aderii, con l’entusiasmo che mi ha sempre caratterizzato, alla proposta politica del gruppo del “Manifesto”: sentivo il bisogno di garanzie istituzionali: mi beccai soltanto la cocente delusione della sconfitta elettorale. Furono mesi di confusione e disimpegno: mi trovavo di fatto fuori dalla politica.
Autunno ’72. Inizia la sua attività il Circolo Ottobre a Palermo, vi aderisco e do il mio contributo. Mi avvicino a “Lotta Continua” e al suo processo di revisione critica delle precedenti posizioni spontaneistiche, particolarmente in rapporto ai consigli: una problematica che mi aveva particolarmente affascinato nelle tesi del “Manifesto”.
Conosco Mauro Rostagno: è un episodio centrale nella mia vita degli ultimi anni. Aderisco a “Lotta Continua” nell’estate del ’73, partecipo a quasi tutte le riunioni di “scuola-quadri” dell’organizzazione, stringo sempre più i rapporti con Rostagno: rappresenta per me un compagno che mi dà garanzia e sicurezza: comincio ad aprirmi alle sue posizioni libertarie, mi avvicino alla problematica renudista.
Si riparte con l’iniziativa politica a Cinisi, si apre una sede e si dà luogo a quella meravigliosa, anche se molto parziale, esperienza di organizzazione degli edili. L’inverno è freddo, la mia disperazione è tiepida. Parto militare: è quel periodo, peraltro molto breve, il termometro del mio stato emozionale: vivo 110 giorni in continuo stato di angoscia ed in preda alla più incredibile mania di persecuzione».
Il contatto tra Peppino e Mauro dura sino al 1976, anno in cui Mauro è candidato alle elezioni politiche nella lista di Democrazia Proletaria, anche nei collegi siciliani con lo lo slogan “il godere deve essere operaio”: non è eletto per pochi voti. Nel congresso di Rimini, nel novembre del ’76 si trova davanti a una dura contestazione delle femministe, in particolare quelle siciliane e abbandona il gruppo che, qualche mese dopo si scioglie. Peppino vive drammaticamente questa crisi che, dalle tematiche della rivista “Re Nudo”, in cui Rostagno scrive, finisce con l’estendersi alle varie anime del movimento del ’77, dove scompaiono le ideologie e dilaga la tendenza a rinchiudersi nel personale, a vivere i propri spazi di vita lontani da momenti di aggregazione rivoluzionaria, ma, si dice, ad organizzare la rivoluzione dentro se stessi.
Rostagno, nel 29 ottobre del ’77 apre il “Macondo”, un locale alternativo in un vecchio stabile di 1500 mq.: malgrado si operi con lo spaccio di abiti usati, il riciclo, la lotta contro il consumismo, i cibi biologici, la presentazione di libri, l’esposizione di mostre, feste, carnevali, il locale viene chiuso, nel febbraio del 78 con l’infondata accusa di spaccio di droghe pesanti: il Macondo era stato, per Rostagno, come dirà egli stesso in un’intervista, il tentativo di “fare muro e argine contro lo sviluppo dell’eroina, che era bestiale”, ma anche “un’alternativa alla scelta della P38, cioè della lotta armata”.
Per contro Peppino prende le distanze rispetto alle dilaganti tematiche “creative” non riesce a condividere l’iniziativa del Macondo, si sente sempre più lontano da chi ha abbandonato il movente fondamentale della lotta di classe, per scegliere la deriva personalistica. Vive interiormente il contrasto tra il militante comunista e il giovane del suo tempo che avverte bisogni legati non solo alla politica, ma alla propria sessualità o al bisogno di divertirsi. Organizza a Cinisi un carnevale alternativo, con un concetto della festa come momento di coinvolgimento collettivo, riversa le sue energie a Radio Aut: la radio concepita come strumento di controinformazione e di formazione di coscienze critiche, come strumento di coordinamento delle situazioni di “movimento” presenti nella zona e di spinta dei momenti di antagonismo sociale.
Di questo travaglio interiore è espressione la lettera, poi usata in modo mistificatorio da chi gestiva le indagini sulla morte di Peppino: va rilevato infatti che, se “è cominciata a febbraio”, com’è scritto, e se “sono nove mesi…” la lettera è stata scritta nel novembre del ’77, mentre Peppino è ucciso il 9 maggio 1978, cinque mesi dopo, ma chi gestiva le indagini sulla sua morte, non si è fatto alcuno scrupolo di usare questa lettera come elemento di prova della volontà di suicidio:
«Sono nove mesi ormai, quanti ne occorrono per una normale gestazione, che medito sull’opportunità, o forse sulla necessità di “abbandonare” la politica. Ho cominciato esattamente il 13 febbraio, vigilia della prima manifestazione studentesca cittadina.
Ricordo molto bene che trascrissi, quel giorno, su una parete del circolo una strofa tratta da una famosa canzone del ’68 in cui si parla di compagne e compagni, di operai e studenti e di “tante facce sorridenti”. Volevo esprimere, con quel gesto, il desiderio di tornare a sorridere e a vivere intensamente come mi succedeva nel ’68 e fino a tutto il ’76. Ma si trattava soltanto di una pietosa aspirazione e ne avevo piena coscienza. Due mesi e mezzo di menate sul “personale” e di allucinanti enunciazioni sul “riprendiamoci la vita” mi avevano aiutato a ritagliarmi notevoli “spazi di morte”, mi avevano annegato in un mare di ipocrisia e di malafede, pregiudicando irrimediabilmente ogni mia possibilità di recupero.
La gente peggiore l’ho conosciuta proprio tra i “personalisti” (cultori del personale) e i cosiddetti “creativi” (ri-creativi): un concentrato di individualismo da porcile e di “raffinata” ipocrisia filistea: a loro preferisco criminali incalliti, ladri stupratori, assassini e la “canaglia” in genere. Debbo purtroppo riconoscere d’aver dato la mia sensibilità in pasto ai cani. Ho cercato con tutte le forze che mi restavano in corpo di riprendere quota, incoraggiato dalla fiducia e dall’affetto di alcuni compagni (vecchi e nuovi): non ce l’ho fatta, bisogna prenderne atto. Il mio sistema nervoso è prossimo al collasso e, sinceramente, non vorrei finire i miei giorni in qualche casa di cura. Ho bisogno, tanto bisogno, di starmene un po’ solo, riposarmi, curarmi. Spero di riuscirci. Il parto non è stato indolore, ma la decisione è ormai presa. Proclamo pubblicamente il mio fallimento come uomo e come rivoluzionario».
Mauro, con un percorso che ricorda, per altri versi, quello di Peppino Impastato, rispolvera il suo vecchio mestiere di giornalista, e si mette a lavorare presso una televisione di Trapani, RTC: diventa capo redattore, inizia una serie di trasmissioni denunciando il boss di Mazara del Vallo Mariano Agate come principale responsabile di traffici di droga e di armi nella zona, si occupa di delitti eccellenti, come quello del sindaco di Castelvetrano Vito Lipari, di massoneria, che a Trapani è ben radicata, con la loggia Scontrino, con la loggia Iside due ed altre logge collegate, di legami tra mafia e politica, in altri termini entra dentro lo stesso perverso circuito di cui si era occupato Peppino, la cui conclusione è la morte, decisa da coloro che vedono in pericolo i propri interessi o la loro signoria territoriale. I boss cominciano ad allertarsi, a preoccuparsi, primo fra tutti Messina Denaro padre di Matteo, Vincenzo Virga e il killer Vito Mazzara, sino al momento della decisione.
Come Peppino Mauro non ha alcuna paura:
“Agli uomini capita di mettere radici, e poi il tronco, i rami, le foglie…quando tira vento, i rami si possono spaccare, le foglie vengono strappate via: allora decidi di non rischiare, di non sfidare il vento. Ti poti, diventi un alberello tranquillo, pochi rami, poche foglie, appena l’indispensabile. Oppure te ne fotti. Cresci e ti allarghi. Vivi. Rischi. Sfidi la mafia, che è una forma di contenimento, di mortificazione. La mafia ti umilia: calati junco che passa la piena, dicono da queste parti. Ecco, la mafia è negazione d’una parola un po’ borghese: la dignità dell’uomo”.
Peppino aveva bene intravisto uno dei mali della realtà siciliana, nel reticolo di connessioni, rapporti sociali sotterranei, connivenze, dove come diceva in una delle sue trasmissioni, Onda Pazza: “ci sono gli amici, gli amici degli amici, gli amici degli amici degli amici, gli amici degli amici degli amici degli amici…”. Si tratta di una catena dove ognuno è funzionale all’altro, dove “na manu lava l’autra e tutti dui lavanu a facci”, il favore, lo scambio tiene collegato ogni anello della catena per renderlo utile nel momento opportuno.
In un articolo pubblicato dal “Quotidiano dei lavoratori” nell’aprile del ’78 Peppino scriveva:
“Il gruppo dirigente DC, che nello scacchiere politico locale, come su quello nazionale si pone come un’associazione di tipo mafioso, non solo e non tanto per la convergenza di mafie e di clientele parassitarie che è riuscito a suscitare e ad aggregare davanti a sé, quanto per il modo stesso, banditesco e truffaldino di concepire ed esercitare il potere nell’amministrazione della cosa pubblica”
Come Peppino, Mauro legge perfettamente, filtrandolo attraverso le sue conoscenze di sociologo, il male dell’appartenenza, non tanto a un nucleo familiare, come è nella ndrangheta, ma a una famiglia ben più grande che riesce a rendere sistema globale il legame di vicinanza che lega singoli soggetti facenti riferimento a un gruppo coeso, sia esso politico, che religioso, che di categoria:
“Qui non conta più se uno è bravo o non è bravo, se è pulito o se ha le mani sporche, se è intelligente o è cretino, se sa fare il suo mestiere o è un ignorante della più bell’acqua, ma quello che conta è l’appartenenza: si iddu m’apparteni o non m’apparteni. Se fai parte della casta, della mia tribù, della mia corrente e allora la cosa vale, se invece non ne fai parte non sei nessuno. Fuori fa freddo, però io apro la finestra: pftu, sputo e richiudo, e fuori deve stare, perchè quello che conta è l’appartenenza. Il degrado dell’appartenenza è il clientelismo politico” .
C’è qualcosa che lega Peppino, siciliano purosangue, a Mauro, ma anche a Danilo Dolci, il grande sociologo triestino che dedicò alla Sicilia cinquant’anni della sua vita. Peppino conobbe Danilo e da lui intuì che la comunicazione, l’interscambio di idee, alternative ha il suo strumento fondamentale nella comunicazione. Un progetto politico si costruisce se “va in circolo”, se diventa conoscenza comune e, soprattutto, se tutti quelli cui è destinato riescono a essere coinvolti, a sentirsi protagonisti per realizzarlo. Tutto questo non implica di aspettare qualcuno che tracci il solco, che cali la sua verità dall’alto, che “trasmetta”. Che sia leader e pastore, rispetto a una moltitudine di pecore. Vuol dire comunicare insieme, costruire in gruppo, crescere reciprocamente, intenzionarsi. Nel 1970 Danilo diede vita al primo esempio di radio libera, quella che egli stesso chiamò La radio dei poveri cristi, i cui protagonisti erano i terremotati del Belice. Era una “radio della nuova resistenza”, un messaggio di denuncia e di lotta rispetto alla gigantesca rapina che i mafiosi avevano compiuto dei fondi per la mancata ricostruzione dei danni del terremoto del ’68.
Nel 1977 Peppino riprendeva quel messaggio attraverso Radio Aut e con un pressante lavoro di controinformazione mirato sui problemi della povera gente, sulle prepotenze mafiose, sulle collusioni politiche. Mauro, dopo avere fatto, soprattutto nella prima parte della sua vita, al suo lavoro di giornalista, sentirà, nell’ultima parte della sua vita, il richiamo della comunicazione, dell’inchiesta, della linea politica rivoluzionaria che era stata alla base della sua vita, anche nei momenti in cui sembrava avesse scelto di rifugiarsi nel “privato”: lavorerà nella sua Radio Tele Cine, senza particolari censure, ma portando avanti un tipo d’informazione dove le immagini si legavano alla notizia, dove la notizia diventava denuncia nella palude di un ambiente dove prolificavano logge massoniche, banche fantasma, ruberie politiche e soprattutto mafia: nessuna emittente televisiva aveva mai realizzato trasmissioni e notiziari di questo tipo, vuoi per paura, vuoi perché le notizie interne alla sfera e all’organizzazione mafiosa, difficilmente riescono a superare la soglia dell’omertà. Certamente Mauro avrà conosciuto le opere e il lavoro di Danilo, ma non siamo al corrente di contatti tra i due. Come Danilo, Mauro ha scelto di dedicare, di dare se stesso, la sua vita, le sue idee alla Sicilia, dove contava anche “di viverci per giocare con i suoi nipotini”. Entrambi sociologi, non hanno resistito al fascino dell’Oriente, Danilo a quello della non violenza gandhiana, Mauro a quello della serenità interiore attraverso lo scambio e la conquista collettiva della conoscenza, ma non hanno resistito neanche al fascino della Sicilia, all’approdo di Ulisse verso l’imprendibile bellezza, con tutti i suoi mille volti enigmatici, le insidie, le radici della storia, la luce, le ombre, il senso di compiutezza che arriva alla fine, quando si giunge alla conclusione che ciò che è stato così doveva essere, ma doveva essere così perché c’eri anche tu a farlo essere così. Peppino sta in mezzo a loro due. Raggi di luce che attraversano questa terra per diradare la notte dell’ignoranza, della povertà, dell’abbandono, della complicità, della violenza.
“Restare inerti? Vagare
altrove per venderci?
O destarci nel sogno di salvare
La vita della terra?”
È il messaggio di Danilo Dolci ai Siciliani. Che si lega a quello di Mauro: “Siciliani si nasce: io ho scelto di esserlo”.
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