(da WordNews.it, 25 febbraio) «Il carcere brucia» e si resta a guardare ha denunciato Claudio Bottan, vicedirettore di Voci Di Dentro, lo scorso 12 febbraio. «Le fiamme si alzano spesso» è sottolineato nell’articolo pubblicato sul sito dell’associazione. Una realtà drammatica, che pone tanti interrogativi e che denuncia quel che accade nei non luoghi nel silenzio omertoso e colpevole di tanti supposti defensori fidei della Costituzione Italiana.
La morte è «una componente di cui sono permeate le pareti delle celle» tra «l’odore ferroso del sangue che cola, gli occhi sbarrati di chi ha trovato la scorciatoia per la libertà inalando il gas della bomboletta o stringendosi al collo un nodo scorsoio» ha testimoniato Claudio Bottan (ex detenuto, attivista e redattore di Voci di Dentro) l’11 agosto dell’anno scorso su Il Dubbio.
«Immagini che continuano a popolare i miei incubi notturni» tra «autolesionismo, suicidi tentati e – troppo spesso – riusciti» e «diventano routine, soprattutto d’estate quando le poche attività che si svolgono in carcere sono sospese e ad abbondare rimane solo il tempo» prosegue nel suo racconto da quelli che appaiono gironi infernali, «un tempo vuoto in cui si affollano i pensieri e sale la tensione per il caldo e per le mancate risposte».
Patricia è morta nel carcere di Pagliarelli a Palermo, come abbiamo raccontato lo scorso 30 gennaio. La sua morte approderà in Parlamento con l’interrogazione presentata da Ilaria Cucchi. «La 54enne è morta in una cella del carcere palermitano il 12 gennaio, appena quattro giorni dopo avervi fatto ingresso trasferita dal femminile di Rebibbia. È arrivata in ambulanza ed è stata collocata in una cella con altre tre detenute, una delle quali le avrebbe dovuto fare da piantone per assisterla nei bisogni quotidiani. Non è stato necessario: il suo corpo malato ha ceduto presto. Quali erano le reali condizioni di salute della donna al momento del trasferimento da Rebibbia? Solo una settimana prima era stata dimessa dopo un ricovero e rimandata in cella per poi, l’8 gennaio, partire per Palermo. Era nelle condizioni per affrontare il lungo viaggio?
E, infine, al Pagliarelli avrebbe potuto essere adeguatamente assistita per le molte gravi patologie di cui era affetta? – scrive Claudio Bottan in un nuovo articolo sul sito web di Voci di Dentro il 13 febbraio scorso – Di Patricia Nike sappiamo ben poco, probabilmente quello non è neppure il suo vero nome stando a quanto trapela dalla comunità nigeriana. Un fantasma, l’ombra di una donna che a Roma trascinava le sue sofferenze fisiche e mentali da una struttura d’accoglienza all’altra senza pace. Nella storia della donna nigeriana sono concentrati tutti gli elementi che caratterizzano la maggior parte degli abitanti del pianeta carcere: povertà, emarginazione, fragilità, dipendenze e malattia. Persone di cui ci importa poco e preferiamo sapere ben nascoste alla nostra vista. Ma pur sempre persone».
«Patrick era un ragazzo di 20 anni, sordo muto, autistico e con ritardo cognitivo. Viveva con una fragilità che avrebbe dovuto garantirgli protezione, ma invece ha trovato la morte nel carcere di Castrogno. Il 13 marzo 2024, nel giorno del suo ventesimo compleanno, è stato violentemente picchiato.
Ci sono prove concrete che dimostrano le aggressioni subite nell’inferno di Castrogno – denuncia Marie Helene Benedetti, presidente di Asperger Abruzzo, nel comunicato del 18 febbraio «Torturato e ucciso nel carcere di Castrogno: la verità nascosta su Patrick Guarnieri» – il carcere di Castrogno è stato segnalato più volte come uno degli istituti più problematici d’Italia. Le condizioni in cui versano i detenuti sono state oggetto di numerose denunce, eppure nulla sembra cambiare. Il caso di Patrick Guarnieri è la dimostrazione più drammatica di un sistema che fallisce proprio dove dovrebbe proteggere. Un sistema che non tutela i più vulnerabili, ma che li spinge in una spirale di abbandono e sofferenza, fino a renderli invisibili. Quando una prigione non garantisce nemmeno il diritto alla vita, può ancora essere considerata un’istituzione giuridica funzionante? O è piuttosto un luogo di annientamento, dove chi entra con fragilità non ha alcuna possibilità di uscirne indenne?».
«Patrick non è solo Patrick. In lui rivediamo i nostri figli, i nostri ragazzi, lasciati soli in un mondo che non li comprende e che troppo spesso li abbandona. La sua storia è la dimostrazione di quanto, ancora oggi, la disabilità venga ignorata, la fragilità venga punita e il sistema fallisca nel proteggere chi avrebbe più bisogno di tutela. Quando uno Stato permette che un ragazzo come Patrick venga incarcerato invece di essere aiutato, noi genitori ci poniamo una domanda inquietante: chi proteggerà domani i nostri figli?» ha sottolineato Marie Helene.
Poco più di una settimana fa il carcere di Pescara ha vissuto una giornata drammatica: dopo il suicidio di un egiziano si è scatenata una rivolta, l’incendio ha intossicato diversi detenuti. Nei giorni precedenti erano state chiuse le indagini sulla direttrice per l’ipotesi di reato di omissione di atti d’ufficio perché, riporta Il Messaggero Abruzzo il 14 febbraio, «in tempi diversi, dal 12 aprile 2023 indebitamente rifiutava il compimento di atti del proprio ufficio che, richiesti dal magistrato di sorveglianza, dovevano essere compiuti senza ritardo». Rifiuti di concedere in un determinato giorno ad un detenuto il colloquio con la moglie, autorizzazione ad una perquisizione “con denudamento” e quanto avvenuto dopo le proteste dei detenuti sulla scarsa qualità di cibo e altro.
«Siamo sereni e confidiamo di poter giustificare ogni addebito – ha dichiarato l’avvocato difensore a Silvia Pollice di Il Messaggero Abruzzo – Non so perché siano contestate queste mancanze alla direttrice Rossi, che fa parte della catena di montaggio insieme ad altre figure professionali interne ed esterne alla casa circondariale» aggiungendo «Credo che riusciremo a giustificare la maggior parte delle contestazioni e confido nella capacità delle memorie difensive che presenteremo di integrare la documentazione mancante nel fascicolo del pubblico ministero». Nelle ore successive il suicidio e la rivolta la direttrice è stata spostata dal DAP ad altro incarico.
«Una giornataccia che è la conseguenza diretta di una politica del Dipartimento dell’Amministrazione penitenziaria che usa il carcere come il luogo del concentramento di persone in stato di disagio, di giovani sofferenti per problemi di dipendenza, di emarginati sociali e stranieri – ha denunciato Francesco Lo Piccolo, direttore di Voci di Dentro – In definitiva quello accaduto a Pescara è il punto d’arrivo di una mala gestione che ha accatastato (tra sezione penale e giudiziaria) oltre 440 persone quando i posti sono appena 270, facendo crescere il numero dei detenuti di giorno in giorno. Il risultato è che tanti sono costretti a dormire per terra sulle strisce di poliuretano perché mancano brande a sufficienza, e altri vengono rinchiusi in locali senza il gabinetto come le sale colloqui avvocati, la stanzetta barberia o nelle stesse celle in disuso perché inagibili. Senza dimenticare che oltre alle brande mancano anche gli sgabelli e che nel carcere di Pescara o si mangia a turno o seduti sulle brande. E queste cose le ho viste di persona, come di persona ho visto gli agenti di polizia penitenziaria, anche questi in numero ridotto: appena 100 quando la pianta organica ne prevede 170 costringendoli così a tripli turni, oltre venti ore di lavoro di seguito».
«Io stesso lo scorso anno dopo una visita con Nessuno Tocchi Caino in una conferenza stampa avevo pubblicamente denunciato la situazione nel carcere di Pescara: 401 detenuti di fronte ad appena 276 posti, topi nelle celle, muffe alle pareti, perdite d’acqua sotto i lavandini, areazione insufficiente, poca luce, corridoi pieni di giovani e vecchi, poveri e malati, in stampelle, ciabatte e accappatoio, celle con 6 brande e solo 4 sgabelli, mancanza di lavoro e pochissime attività – ha denunciato Lo Piccolo appresa la notizia della conclusione delle indagini sulla direttrice del carcere di Pescara – è da oltre due anni che il Dipartimento dell’Amministrazione Penitenziaria è a conoscenza delle disfunzioni e inefficienze e in questi due ultimi anni sono state diverse le ispezioni dei funzionari.
A cosa sono servite le indagini amministrative partite da Roma? Perché il Dap non ha risolto subito? E perché mai l’opinione pubblica deve venire a sapere queste cose solo perché intervengono le Procure? E che ruolo ha avuto l’ex garante regionale dei detenuti professor Cifaldi? Non sapeva delle violazioni dei diritti, diritti che invece doveva garantire? E che cosa dire dell’informazione locale che raramente ha preso in considerazione i comunicati di Voci di dentro “fidandosi” solo delle veline delle fonti ufficiali?».
(da WordNews 30 gennaio)
Eros Priore internato nella Casa Lavoro di Vasto, Zio N., malato grave e detenuto nel carcere di Chieti. Nomi che al massimo hanno conquistato poche righe sulla cronaca locale e poi son stati spazzati via da ogni orizzonte mediatico e sociale. Solo l’anno scorso oltre duecento persone morte, ottantotto i suicidi accertati. Sono tutte morti annunciate, tutte avvenute in carceri italiane.
«Chiamiamoli con il loro nome: sono delitti di Stato – denuncia Rita Bernardini, Nessuno Tocchi Caino – per i quali nessun procuratore, nonostante le denunce che continuiamo a presentare, fino a questo momento ha voluto individuare i responsabili. Che sono molto, molto, molto in alto».
I reietti, gli emarginati, i senza voce, esistono anche nel XXI secolo. Coloro che la brava borghesia butterebbe al rogo se potesse. Per poi inginocchiarsi se compaiono colletti bianchi, ventiquattrore, paccate di potere e soldi. La salute, la dignità, la vita, dovrebbero essere diritti umani fondamentali, diritti universali, garantiti a tutte e tutti. Ma la realtà, drammaticamente e ingiustamente, non corrisponde mai ai proclami e alle dichiarazioni di principio.
«Le pene non possono consistere in trattamenti contrari al senso di umanità e devono tendere alla rieducazione del condannato» proclama l’articolo 27 di quella Costituzione amata, difesa, sacralizzata da tanti, la “costituzione più bella al mondo” e con un numero di defensor fidei che non basterebbe il Maracanà a contenerli tutti, soprattutto tra coloro che dovrebbero avere come stella polare il “bene comune”. La quotidianità nelle carceri italiane testimonia, brutalmente, l’abisso tra quel che declamano costoro e la realtà reale, la vera verità sulla carne viva di persone a cui è negato ogni diritto, ogni dignità, la vita stessa.
«Chi poco sa subito parla» ammonisce antica saggezza popolare. In un mondo in cui sempre più assediano superficialità, volgarità, prepotenza, tracotanza e ignoranza si è andati oltre e chi nulla sa parla ancora prima di subito. Cercando di imporre il proprio non sapere con arroganza e violenta prevaricazione, ergendosi a censori degli altri e unico (non) pensiero.
Di fronte le porte di un carcere esplode in tutta la sua tracotante virulenza tutto questo. Il pluriverso carcerario è tra i luoghi meno illuminati e meno conosciuti e, in vizio di tutto questo, più se ne (s)parla e si giudica. Di fronte le sbarre di un penitenziario tanti, troppi, si arrogano il diritto di cancellare ogni proclama costituzionale, umano, di diritti e valori. Chi si trova in quei non luoghi è una persona, un essere umano, ha diritti e dignità.
In questo 2025 che già è stato segnato dai primi suicidi nelle carceri italiane tra queste persone (ricordiamola sempre questa parola, sono persone, esseri umani) c’è Patricia Nike. «L’ennesima storia di sofferenza fisica e mentale, una tra le tante che si incrociano lungo i corridoi delle sezioni del carcere se si è predisposti all’ascolto – denuncia Claudio Bottan, Voci di Dentro – l’ennesima storia di una persona che il carcere non avrebbe potuto curare e che, invece, in carcere ha trovato la morte». Ripubblichiamo il racconto – denuncia della vita spezzata di Patricia Nike di Claudio Bottan, pubblicato sul sito di Voci di Dentro https://vocididentro.it/ lo scorso 24 gennaio.
Una foto dello scorso marzo la ritrae accanto a Papa Francesco quando il pontefice ha celebrato la Messa in Coena Domini nel penitenziario femminile di Rebibbia dove ha lavato i piedi a dodici detenute.
“Il Papa consola una donna in lacrime”, scriveva Vatican news raccontando l’incontro di Bergoglio con le donne recluse. “Prima di entrare in infermeria, dove avrebbe salutato quelle che non avevano potuto partecipare alla celebrazione, un fuori programma: una donna di origine africana, retta da due assistenti, urla e scoppia in un pianto incontrollabile. Già durante la Messa aveva manifestato il suo disagio. “Soffro troppo, non ce la faccio più, soffro tanto”, dice tra i singhiozzi a Papa Francesco che la accarezza, prova a tranquillizzarla, poi le poggia una mano sopra la fronte e le assicura preghiere, invitando anche lei a pregare”.
Quella donna sofferente si chiamava Patricia Nike, nigeriana di 54 anni. È arrivata al carcere Pagliarelli di Palermo in ambulanza lo scorso 8 gennaio, e lì è morta dopo appena quattro giorni dal suo ingresso a seguito di un trasferimento da Rebibbia femminile. Ne ha dato notizia Pino Apprendi, garante dei detenuti Palermo, chiedendosi quale fosse stata la logica del trasferimento dato che, dalle prime notizie, pare che la donna non avesse familiari in Sicilia. È da escludere anche l’ipotesi che la scelta dell’istituto palermitano sia stata determinata da una particolare eccellenza nell’ambito sanitario. Già in passato, infatti, lo stesso garante aveva più volte denunciato le gravi carenze nell’assistenza sanitaria al Pagliarelli, struttura che deve fare i conti con il sovraffollamento ormai strutturale che investe la maggior parte dei penitenziari italiani.
Non si conoscono ancora le cause precise di una morte così repentina, e nessuna informazione ufficiale è trapelata al momento sul decesso di Patricia. Una morte che non ha trovato spazio nemmeno tra gli “eventi critici” cui fa periodicamente riferimento il Dap quando si tratta di redigere statistiche. Da quanto Voci di dentro ha appreso da fonti istituzionali, pare che la donna fosse affetta da varie patologie, inclusa la positività all’Hiv, e fosse in terapia con metadone per la tossicodipendenza che aveva segnato profondamente la sua vita. Proprio per questo, qualche mese prima era stata richiesta la sospensione della pena per consentirle di curarsi adeguatamente; istanza rigettata in quanto, nonostante una condanna di poco più di due anni – a parere dell’ufficio di Sorveglianza – sarebbe stata adeguatamente assistita e curata a Rebibbia. Meno di un mese fa era stata dimessa dopo un ricovero e aveva fatto ritorno in cella.
Lo scorso mese di ottobre il Dap aveva disposto lo “sfollamento” di venti delle donne recluse a Rebibbia femminile, a cui è stato dato seguito a gennaio con trasferimenti in vari istituti della Penisola motivati da esigenze logistiche per lavori di ristrutturazione di una delle sezioni. Quali erano realmente le condizioni di salute di Patricia al momento del suo trasferimento al Pagliarelli? “C’è da augurarsi che quantomeno abbia potuto viaggiare in aereo e senza manette” aggiunge Apprendi. Già, non necessariamente con un Falcon di Stato ma in modo dignitoso date le condizioni di salute.
Al suo arrivo la donna è stata collocata in cella con altre tre detenute, ad una delle quali è stato assegnato il compito di assisterla come caregiver, “il piantone” nella terminologia carceraria, a cui viene riconosciuto un compenso per il lavoro svolto. Pare che avesse serie difficoltà di deambulazione, tanto che qualcuna tra le recluse del Pagliarelli l’ha notata muovere passi incerti appoggiata ad un girello.
Quali erano realmente le sue condizioni di salute durante la permanenza a Rebibbia femminile? E, quanto al trasferimento a Palermo, si è trattato di un’ordinaria operazione di “sfollamento” oppure di una scelta dettata da esigenze di gestione di quelle persone problematiche che, nel cinico gergo carcerario, vengono classificate come “incollocabili”? Gli ultimi tra gli ultimi, quelle persone affette da patologie psichiatriche, malate e tossicodipendenti che non dovrebbero trovarsi in carcere bensì curate nelle Rems e in strutture adeguate. Domande, queste, alle quali intende ottenere risposte la senatrice Ilaria Cucchi di AVS attraverso una formale richiesta di accesso agli atti, con l’obiettivo di fare chiarezza in una vicenda con molte opacità.
È l’ennesima storia di cui non si parla volentieri, una delle tante che passano di bocca in bocca, a cui infine danno voce coloro che il carcere lo conoscono e provano a cambiarlo mantenendo alta l’attenzione, esercitando quel diritto all’informazione “galeotta” che spesso si preferirebbe silenziare.
La trasparenza, d’altronde, non è propriamente una virtù dell’istituzione penitenziaria. Quell’apparato che dovrebbe essere un palazzo di vetro, fatica ad accettare il principio sacrosanto secondo il quale i diritti dell’individuo non sono automaticamente sospesi varcando la soglia del carcere. Diritto alla salute, all’affettività e perfino a una morte dignitosa, troppo spesso vengono calpestati assecondando le presunte esigenze di “ordine e sicurezza” tanto care al Governo.
“In carcere ci sono innanzitutto persone che hanno problemi di dipendenza problematica da sostanze stupefacenti, tossicodipendenti per intenderci, i casi psichiatrici, molti poveri, come i senza tetto o senza fissa dimora, e poi gli stranieri, quelli soprattutto che non hanno il permesso di soggiorno, che sono degli invisibili, che spesso commettono reati perché nessuno gli dà un lavoro” ripete come un mantra Rita Bernardini, Presidente dell’associazione Nessuno tocchi Caino. Gli invisibili, quelli di cui la società civile preferisce non sapere.
Anche della travagliata esistenza di Patricia e delle sue sofferenze sappiamo ben poco. D’altronde a chi potrebbe interessare di una delinquente, tossica, per giunta nera ed extracomunitaria? Giusto a Papa Francesco.
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