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“Mortu ‘u parrinu finisci u figghiozzu”

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La vernice della stupidità è ormai così incrostata che è diventata il normale modo di essere.

Bisogna passarci. Il tempo, l’attraversamento delle esperienze, lo sguardo attento in una lunga restrospettiva, l’analisi di reperti, cocci, frammenti, monotone ripetizioni di ciò che è stato e che si ripropone con le stesse pervicaci scelte di furbizia a uso, consumo e salvaguardia delle proprie piccolezze circostanti, dà la misura e la coscienza di quanto lontano sia il sogno di vivere in una società in cui legalità, giustizia penale e giustizia sociale, parità di diritti, rispetto delle idee diverse dalle tue siano valori fondanti per vivere insieme.

Ponti d’inutilità s’innalzano per congiungersi con altre sponde di retorica, di artifici, di effimere soluzioni provvisorie, di perpetrazioni all’infinito di violenze inutili. La vernice della stupidità è ormai così incrostata che è diventata il normale modo di essere. E così si preferisce lo scontro violento tra schieramenti opposti, non per trovare la verità, ma per imporre la propria verità. Li vedi pronti a battere le mani, a lasciarsi incantare dal maghetto di turno, a schierarsi in difesa, salvo poi, quando qualche altro cantante il giorno dopo avrà sciorinato i suoi melliflui argomenti, cambiare idea e diventare alfieri del contrario di ieri. In sequenza passano pifferai magici, babbinatale, befane con sacchi pieni di ogni ben di dio, niente tasse, dentiere, assegno mensile senza bisogno di lavorare, spinelli, pelo a buon prezzo con l’apertura delle case chiuse, cannoniere a caccia di barconi di migranti. Su altre sponde, quelle dei leccaculi, li vedi pronti ad azionare la macchina del fango, a raccogliere frammenti spesso falsi, reperiti negli angoli della menzogna, della palese distorsione dei fatti, o comunque dello screditamento della dignità d’una persona, e rimanere fermi nelle loro false certezze anche quando l’evidenza dei fatti ha mostrato che non c’era niente. Ipocriti che si accreditano di meriti e di esperienze che non li hanno nemmeno sfiorati, falsi testimoni che si propongono come “predicatori di valori” con cui non hanno nulla a che fare. Bugie, sarcasmi, comunicazioni sotterranee di false costruzioni e di infamie non provate, cambi di rotta, apparenti fraintendimenti, dimenticanze, violenza e arroganza dal soglio della propria onnipotenza, raffinati incroci di opportunismo, volontà diabolica di sostituzione della propria immagine ad altre, inconciliabili con la tua ed altro ancora

Il giornalismo italiano è una delle vetrine in cui questa distorta immagine del proprio essere legato alla funzione dell’informazione diventa la notizia a senso unico, non nata sul campo, dalla propria esperienza, ma suggerita, pilotata da chi fornisce un certo tipo di notizie e ha l’interesse a farle veicolare, sia per giustificare il proprio operato, sia per “preordinare” gli elementi della futura sentenza o dell’obiettivo da conseguire. Naturalmente il rapporto tra magistrati e giornalisti diventa una sorta di sentenza pre-processuale nella quale è già insita la “reità”, ovvero l’elemento che ha prodotto l’azione e ne ha individuato la colpevolezza. Sparisce così la presunzione d’innocenza, il fatto è gonfiato sul nascere, poi viene del tutto ignorato quando l’eventuale lontana e tardiva sentenza dovesse sancire l’estraneità degli accusati.

“Mortu ‘u parrinu finisci u figghiozzu”, diceva un vecchio proverbio siciliano. La reità si sposta non più sui presunti colpevoli, ma su chi tenta di sovvertire l’ufficialità di una costruzione, per rendere credibile la quale, hanno lavorato tutti, dalle forze dell’ordine ai pentiti, ai magistrati. Per non parlare poi di tutte le infinite vie di cui si si può servire per perseguire chi non si attiene alle regole e osa mettere in discussione quanto deciso dall’alto e accettato universalmente. Cioè, “o ti manci sta minestra o ti iecchi d’a finestra”.

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Redazione

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