Esistono due giustizie, quella penale, che assolve gli imputati dalle accuse di collusione mafiosa e quella delle misure di prevenzione, che condanna gli stessi malgrado le assoluzioni anche sulla base di sospetti, deduzioni, testimonianze spesso organizzate e costruite attraverso particolari linee d’indagine e d’istruzione processuale che vogliono portare a fondo la linea d’accusa e non accettano il responso dei colleghi, quando questi smentiscono i loro assunti o ne dimostrano l’infondatezza. In tal caso il pm si può appellare, si riaprono i giochi e si va in appello, ricominciando tutto daccapo in una perversa catena che macina a fuoco lento gli imputati, spesso conducendoli alla resa e alla disperazione, quando questi non hanno i mezzi, la testardaggine e le possibilità di continuare in questo perverso gioco. È successo così riguardo alla recente sentenza di restituzione dei beni ai fratelli Niceta. Sembrava cosa fatta, “è finito un incubo”, ci aveva detto Massimo Niceta qualche giorno fa, e invece si ricomincia: il pubblico ministero Pierangelo Padova, lo stesso che ha raccolto le testimonianze di Angelo Niceta per usarle come prova, ha impugnato il decreto di dissequestro rinviando tutto alla Corte d’Appello. A nulla è servita la ricognizione dei beni, disposta dallo stesso tribunale, la quale ha escluso che il patrimonio dei Niceta fosse in qualche modo inquinato da passati rapporti che Niceta padre, negli anni ’90 avrebbe avuto con i mafiosi di Brancaccio Guttadauro. Vicende che riemergono gettando ombre, cui si associano altre ombre relative all’assunzione dei due figli di Filippo Guttadauro nel punto vendita di Belicittà, di proprietà degli stessi Niceta. Non è servito a niente dimostrare che tutto quello che la famiglia Niceta ha costruito è frutto, da una parte di beni ereditati via materna, dall’altra da decenni di duro lavoro, interamente risucchiati dal vortice dell’amministrazione giudiziaria, affidata a un avvocato appartenente al cerchio magico della Saguto e di Cappellano Seminara. E quindi si ricomincia l’odissea con i suoi indefinibili tempi.
Da Palermo, dove la Procura non arretra di un passo e dove l’attuale procuratore Lo Voi ha sostenuto che Telejato non c’entrava niente con l’apertura della indagine sulla Saguto, che sarebbe stata tutta merito suo, dove lo stesso aveva – in Commissione Antimafia – fatto dell’ironia sulla costituzione di un’associazione “In difesa del cittadino”, composta dalle persone vittime dei provvedimenti di prevenzione, affermando che si trattava di un tentativo dei mafiosi di riprendersi i loro beni, passiamo all’altra procura, quella di Caltanissetta, dove Roberto Sorino, maresciallo aiutante del nucleo di polizia tributaria che ha partecipato alle indagini ha dichiarato che «Dal 2007 al 2015 le entrate della famiglia Caramma-Saguto ammontano in totale a circa tre milioni di euro, mentre le uscite superano di poco questa cifra. In pratica, c’è un differenziale negativo di circa 36mila euro». Si tratta di cifre che danno un’idea dell’alto tenore di vita della famiglia Caramma-Saguto, e di tutto quello che c’era dietro la possibilità di disporre di queste cifre. Il militare testimone così continua: «Il suo capitale sociale nel 2008 inizia a crescere. Poi abbiamo notato che dopo alcuni attacchi mediatici, soprattutto da parte dell’emittente Telejato, che puntavano a mettere in evidenza questi rapporti fra il marito di Saguto e Cappellano Seminara, il volume d’affari di Caramma effettivamente si riduce. Contestualmente aumentano i versamenti in denaro contante sui conti correnti della famiglia».«Oltre a liquidazioni maggiorate, ci sono anche prestazioni già fatturate che gli vengono pagate una seconda volta, malgrado la stessa cifra sia stata già percepita in precedenza».
Secondo artifici contabili si riscontrano compensi gonfiati, spesso raddoppiati o di prestazioni lavorative pagate al momento del saldo finale e poi di nuovo a pochi mesi di distanza. «Ci sono continue erogazioni in eccesso, si arriva anche a superare di ottomila euro il compenso finale stabilito dal tribunale o a pagamenti di diecimila euro cui non corrisponde alcuna fattura giustificativa, pagamenti non documentati, e ancora fatture emesse a sequestri ormai revocati». Gli avvocati di Carmelo Provenzano, di sua moglie Maria Ingrao e della sua amica Calogera Manta hanno abbandonato la difesa degli imputati, apparentemente per protestare contro alcune “presunte” manovre del pm che avrebbe utilizzato testimonianze di altri processi, di fatto perché a quanto emerso da successive intercettazioni il prof. Provenzano avrebbe cercato di “imboccare” i testi baypassando lo stesso ruolo della sua difesa. Quando un avvocato rinuncia in modo così eclatante non ci si può esimere dal sospetto che lo faccia perché si rende conto che non c’è niente che possa fargli vincere la causa.
E quindi un fiume di soldi nel portafogli di Lorenzo Caramma, e quindi della sua consorte e un altro, pari a circa 500 mila euro mensili in quello degli amministratori giudiziari delle imprese dei Niceta e dei loro collaboratori.
Tre cose sono certe, sino a questo momento: una è che non è vero che Telejato non c’entra niente, ma come rilevato da testimonianze processuali di magistrati interni agli stessi uffici di prevenzione, ha avuto un ruolo d’avvio e poi centrale, diventando spesso addirittura la fonte da cui i magistrati attingevano notizie; l’altra è che quando la macchina della giustizia ha individuato un colpevole, anche se questo è innocente, difficilmente ci si può salvare dalla condanna, la terza che tale condanna diventa quasi certa quando c’è in mezzo la reputazione, il ruolo o la carriera di un magistrato. In questo caso tuttavia quello che fa pensare che non tutto e non sempre è così, è l’andamento “severo” ed attento dei pm di Caltanissetta, nei confronti dell’operato di una collega, la Saguto e di un altro gruppo di suoi colleghi e amici, se non vogliamo chiamarli complici. Cioè a dire che non bisogna fare di tutta l’erba un fascio e sapere isolare i singoli casi senza correre il rischio di sparare nel mucchio e abbandonare definitivamente la speranza di avere giustizia. E pertanto l’augurio che possiamo fare alla famiglia Niceta è di trovare quella giustizia che ostinatamente essi continuano ad invocare.
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