Il renzismo, che ha caratterizzato questa legislatura si è avvitato in una serie di fallimenti che hanno distrutto e fatto a pezzi quello che una volta era il principale “partito di lotta e di governo” italiano.

È incredibile, ma l’insieme delle vicende sembrano essere state preordinate proprio come se il fine ultimo fosse quello dell’implosione. La fine della Democrazia Cristiana ha comportato il divaricamento degli elettori di questo partito in gran parte verso il centrodestra berlusconiano, in parte verso il PD, dove ha confluito l’area più verniciata di progressismo, dando a questo partito quella breve eccedenza di voti che gli ha fatto vincere le ultime elezioni. E la vecchia Democrazia Cristiana ha risucchiato interamente quello che era “il partito della sinistra” riducendolo a un partito del centro con qualche sfumatura di progressismo. Cioè, più o meno la perpetuazione della D.C. di morotea memoria. La “rottamazione” è stato un espediente a senso unico per mettere nell’angolo gli ultimi residui di comunismo e i suoi ultimi epigoni. L’illusione di un vincitore di sinistra, Bersani, è durata tanto quanto il rifiuto di Grillo dell’invito di far qualcosa insieme, e subito tutto il moderatismo di vecchia data, con la benedizione di Napolitano, si è presentato con il governo di Enrico Letta, barbaramente tradito e affossato dal suo compagno di cordata Renzi, il quale è stato capace di realizzare un autentico programma di restaurazione ben oltre le aspettative della destra berlusconiana dal Jobs Act, alle castronerie definite “buona scuola”, al tentativo criminogeno di affossare la Costituzione, per fortuna respinto dal referendum e in tempi più recenti a una pessima riverniciatura della legge sull’utilizzo dei beni sequestrati e confiscati alla mafia.

Il “mi gioco tutto”, quasi si trattasse di un poker, la promessa di andarsene a casa, tutto si è rivelato un imbroglio: Renzi è rimasto al suo posto mandando in prima fila un altro suo democristiano fedelissimo, dopo che a un altro democristiano, Mattarella, aveva affidato la presidenza della Repubblica. Fallita la riforma costituzionale il Demolitore ha continuato a mandare avanti il processo di autodistruzione di se stesso e del suo partito, lavorando al proprio interno, con l’obiettivo di fare andare via chi si fosse permesso di avanzare un minimo di dissenso, ovvero la residua area che si ispirava alle idee di sinistra, e all’esterno con l’approvazione di una legge elettorale che restituiva, senza alcuna possibilità di alternativa, il paese al centro destra. È legittimo chiedersi se si può raggiungere un simile livello di stupidità o di autolesionismo, se e perché la maggioranza che lo ha sostenuto non abbia espresso un minimo di dissenso. La spiegazione più semplice è quella che, nella paura di consegnare il paese ai “sovversivi” di Grillo, Renzi e i suoi accoliti abbiano predisposto e sottoscritto un nascosto nuovo patto del Nazareno, che, dando per scontata la sconfitta del PD ne convogli i resti nel centrodestra vincente con una coalizione che è quella da tempo presente nei sogni e nelle strategie politiche di Napolitano. Una sorta di “Grosse Koalition” alla tedesca, con forti segnali di destra razzista e xenofoba, con il rigetto nell’angolo delle frange estremiste di sinistra e dei grillini.

Il Pd avrebbe potuto ancora salvare la faccia approvando lo jus soli, una legge di civiltà presente in tutta Europa, ma ha avuto paura di perdere, quando invece avrebbe potuto vincere. Su decisione di Renzi le camere sono state frettolosamente sciolte a fine dicembre, quando invece avrebbero potuto durare sino al 25 febbraio, data delle ultime elezioni politiche: respinta la proposta di rinviare le dimissioni di qualche settimana per approvare o tentare di farlo, lo jus soli. Ma prima di annunciare le sue dimissioni Gentiloni ha avuto il tempo e la faccia tosta di gettare in faccia agli italiani la legge di stabilità fatta di mance preelettorali, il rincaro delle tariffe di luce e gas e l’invio di una spedizione italiana di circa 450 soldati in Nigeria. Scelta inspiegabile per l’italiano comune, tanto quanto la spedizione in Iraq o in Afghanistan, anzi, per molti aspetti ben più pericolosa delle altre due. Su questi ultimi errori si chiude l’unica esperienza di una legislazione eletta e completa nel quinquennio, di un governo definitosi di centrosinistra, ma che non è stato più un governo dei lavoratori, o di quelli in cerca di occupazione, ma della media ed alta borghesia padronale legata ai gangli più rappresentativi del potere, dalla magistratura, alla Confindustria, alle banche. In pratica un partito diventato “potere” senza avere avuto la capacità di dotarsi dello strumento indispensabile per la conquista e il mantenimento del potere, la comunicazione, il possesso dei suoi mezzi e la capacità di servirsene per trovare consenso. Tutto è stato lasciato in mano al signore dell’etere che, calpestando qualsiasi conflitto d’interesse, sta utilizzando ogni spazio disponibile per preparare il suo rientro in scena con tutta la galleria dei suoi mostri nuovi e vecchi.

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Salvo Vitale

Salvo Vitale è stato un compagno di lotte di Peppino Impastato, con il quale ha condiviso un percorso politico e di impegno sociale che ha portato entrambi ad opporsi a Cosa Nostra, nella Cinisi governata da Tano Badalamenti, il boss legato alla Cupola guidata negli anni Settanta da Stefano Bontate.

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