Lettera a Pino

Caro Pino,

sono lieto che la tua surreale vicenda giudiziaria sia finita. Lo strascico della condanna per diffamazione nei confronti di Porcasi, Giuliano e Quatrosi credo che sia stato un pietoso tentativo di dimostrare che comunque sotto c’era qualcosa e che tutto l’apparato giudiziario costruito nei tuoi confronti non è stato inutile, aveva qualche motivo d’essere.

Ho vissuto interamente questa vicenda, da quando alle tre di notte del 4 maggio 2016 due capitani dei carabinieri bussarono alla sede di Telejato, ti portarono in caserma fotografandoti assieme a nove mafiosi della cosca di Borgetto, le cui malefatte tu avevi denunciato, e notificandoti il divieto di soggiornare nelle province di Palermo e di Trapani. Nella tarda mattinata il procuratore di Palermo Lo Voi dava notizia di un’operazione denominata Kelevra e veniva diffuso un filmato, preparato dagli investigatori, nel quale erano state messe insieme con sapienza e cattiveria tutte le circostanze e le intercettazioni che avrebbero potuto demolire la tua immagine. Non che tu fossi un santerellino, ma tutto questo, come poi è venuto fuori dal dibattito in aula ed è stato denunciato dai tuoi avvocati Ingroia e Parrino, non aveva alcuna rilevanza penale. Veniva fuori, e la gente si convinse subito di questo, che tu elemosinavi soldi presso i vari politici della zona, ricattandoli con minacce di servizi contro li loro attraverso la tua emittente, che avevi una vita personale dissoluta e che ti servivi dell’antimafia come paravento per dare lustro a te stesso e alla tua televisione. Mandandoti  “in esilio” si voleva evitare che tu ti servissi della tua emittente per denunciare cosa c’era sotto il pistolotto organizzato per distruggerti. Tua figlia Letizia e io non abbiamo ceduto ed abbiamo continuato a tenere accesa la spina, grazie anche ai tuoi interventi dal cellulare e dal telefono. Il pallone si  sgonfiò nell’arco di qualche mese, ma la tua immagine e quella di Telejato ne rimasero distrutti: chi aveva studiato l’operazione aveva questo obiettivo. La gogna mediatica finì su tutti i giornali, i ragazzi non frequentarono più Telejato, la pubblicità venne meno e la procura non rinunciò all’idea perversa di mandarti sotto processo.

In realtà la vicenda era iniziata quattro anni prima, quando, attratti dalla serietà del nostro lavoro giornalistico, cominciarono a venire in redazione una serie di persone alle quali era stato tolto tutto, le case, i terreni, persino la bicicletta per i bambini. Tutto con il sospetto che i beni di queste persone fossero stati realizzati con capitali e attività mafiose. Dopo esserci assicurati, anche guardando le carte, che la mafia c’entrava poco e che non si trattava di mafiosi, ma di vittime della mafia, che chiedeva loro il pizzo, e vittime dello stato che riteneva il pagamento del pizzo un modo di  finanziare Cosa Nostra, abbiamo iniziato la nostra campagna di denuncia, individuando le responsabilità della Presidente dell’Ufficio Misure di prevenzione, Silvana Saguto, che gestiva l’ufficio come una sua personale bottega. Abbiamo individuato un centinaio di casi in cui alcuni imprenditori siciliani erano stati spogliati di tutto e le loro aziende erano state date in mano ad amministratori giudiziari che ne avevano fatto una fonte di arricchimento personale, sfruttandole e distruggendole. Centinaia di lavoratori avevano perso il posto  di lavoro e il colpo dato alla già debole economia siciliana era evidente.   In un  certo momento si è aperto uno spiraglio, del quale abbiamo sempre rivendicato la paternità, ovvero che poteva esserci sotto del marcio, e le intercettazioni rivelavano che c’era davvero una catena di avvocati, imprenditori, amministratori, dirigenti degli uffici pubblici, magistrati, cancellieri, politici, tutti dentro il cerchio magico che ruotava intorno a Silvana Saguto. I nuovi padroni di Palermo. I vari processi, tra assoluzioni e condanne, non hanno potuto nascondere il marcio e i sequestratori sono stati sequestrati dei loro beni e finiti in carcere. Purtoppo quel lavoro è rimasto incompiuto. La parte più importante delle nostre denunce riguardava soprattutto l’esistenza di una legge che consente allo stato, al di là di ogni legge di tutela della proprietà privata,  di appropriarsi dei beni di una persona, ove insista anche il semplice sospetto che trattasi di mafia. Noi siamo e continuiamo ad essere dell’avviso che sui sospetti non provati non si possa privare una persona dei propri beni. Quella legge anticostituzionale, fatta in un periodo di emergenza, continua ad esserci  e non ci stancheremo di dire che va cambiata. Abbiamo fatto le nostre proposte, che ho pubblicato, assieme a tutta questa storia, nel mio libro “In nome dell’Antimafia”.

Un abbraccio e un goccio di spumante.

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