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L’antimafia vera e quella fasulla

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Tragediatori, opportunisti, professionisti, volontari, attivisti ed altro.

Dopo il libro “Contro l’antimafia” di Giacomo Di Girolamo, arriva un’altra bordata. Stavolta a spararla è Francesco Forgione, stesso nome di Padre Pio, in un libro dal titolo “I tragediatori”, pubblicato da Rubbettino. Il libro non è ancora distribuito, e pertanto quello che qui si scrive potrebbe essere oggetto di rilettura critica, ma, a giudicare da quanto ne riporta Attilio Bolzoni in un articolo sul “Venerdì di Repubblica” del 30.9.2016, ci sono gli elementi per giudicare che ci troviamo davanti all’ennesimo attacco contro l’antimafia, secondo una strategia che in questi ultimi tempi sembra diventata di moda e sta assumendo risvolti preoccupanti. “L’antimafia parolaia”, “L’antimafia tradita”, il “businnes dell’antimafia”, “professione antimafia”, “antimafia alla sbarra”, “l’antimafia di facciata o di parata”, “la mafia dell’antimafia” sono o potrebbero essere alcuni titoli di questa campagna giornalistica che sembra avere come obiettivo lo screditamento, non di qualcuna, ma di tutte le strutture nate sul tema dell’antimafia, soprattutto dopo la morte di Falcone e Borsellino e che dovrebbero comportare inevitabilmente, secondo il titolo di Bolzoni, che riporta il pensiero di Forgione, “l’autunno dell’antimafia”, per non dire la sua fine.

Le accuse sono quelle che sono state evidenziate da chi scrive, anche molto prima che si aprisse questo tiro al piccione, senza la pretesa o l’intenzione di affondare “tutta” l’antimafia.

Cosa nasconde questa recente strategia di denuncia? Una prima ipotesi freudiana potrebbe partire dal subconscio di ognuno dei meridionali, dove la mafia abbia lasciato le sue sedimentazioni, la sua lunga teoria d’insegnamenti fatti di paura, di sentimenti di resa, d’istinto di conservazione, di levate d’ingegno, di parassitismo non solo economico, anche culturale ed altri elementi che, senza che ce ne sia l’intenzione o la coscienza, continuano a lavorare silenziosamente e che alla fine ci fanno concludere che la “novità” dell’antimafia contemporanea, specie se legata ad interessi economici, vale tanto quanto la vecchia economia mafiosa. E quindi, nella misura in cui non c‘è, secondo alcuni, più destra né sinistra, non ci sarebbe più una netta linea di demarcazione tra mafia e antimafia, specialmente quando in nome dell’antimafia si gestiscono attività produttive e ci si lega ad ambienti e persone che rappresentano le varie facce del potere. Per dirla come Salvo, cioè chi sta scrivendo, nel film “I cento passi”; “noi siciliani la mafia la vogliamo, perché ci piace, ci identifica”.

Altra considerazione che si lega con la prima, è quella che fare il funerale all’antimafia non può non piacere ai mafiosi. Per loro è un grosso favore che nasconde il presupposto che oltre la mafia non c’è niente, che, dal momento che l’antimafia è fatta di profittatori, è meglio tenersi il vecchio sistema lavoro, economia, sopravvivenza e, per alcuni, ricchezza.

Forgione cita Montante, presidente di Confindustria, indagato per associazione mafiosa, già bandiera dell’antimafia, amico e alleato di Crocetta e del suo “ispiratore” Beppe Lumia, cita la Saguto, che ha lavorato per anni con l’acquiescenza dei suoi colleghi e con il consenso di giornalisti e politici, sequestrando grandi patrimoni, spesso sulla legge del sospetto di collusioni mafiose, ma non trascurando di “farsi i fatti suoi”, cioè di pensare alla sua famiglia e ai suoi amici.

Cita anche Pino Maniaci, accusandolo di avere strumentalizzato l’uccisione dei suoi due cani che invece sarebbe stata causata da “una storia di femmine e di corna”. Probabilmente non ha seguito il caso, non ha seguito più quanto scritto o detto su Telejato e si è accontentato, come tutti i suoi colleghi giornalisti, delle verità messe in giro dalla Procura. Non sa e non si è curato di sapere che per i suoi cani uccisi Maniaci aveva sporto denuncia e indicato il suo presunto esecutore, ma dal momento che costui non è stato accusato di niente, inevitabilmente ciò comporta che qualche altra pista, ovvero quella mafiosa, era attendibile. Anche perché a Maniaci, ad oggi non è stata ritirata la tutela che lo scorta. Altra accusa è quella di avere attaccato “l’antimafia in pizzeria” di Giovanni Impastato, ma senza valutarne la fondatezza. Naturalmente di questo tipo di antimafia egli non si occupa e non la fa rientrare nel suo schema.

Si potrebbe continuare su questa scia, così come fa Forgione, mettendo assieme vari pezzi ed episodi verificatisi qua e là per arrivare all’impietoso giudizio che “servono nuove fondamenta perché sull’antimafia di oggi non c’è nulla da ricostruire”. La vecchia storia della parte per il tutto, della cucitura di elementi affini per elaborare un’analisi, trascurando tutti gli altri elementi che potrebbero smentirla, e per arrivare alla sintesi, alla conclusione che l’antimafia è finita.

Vengono spontanee alcune domande: sta parlando uno che è stato per due anni Presidente della Commissione antimafia, secondo la strategia della sapiente divisione degli incarichi politici. Magari il posto sarebbe toccato a Lumia, ma era giusto fare l’alternanza per tenere buoni quelli di Rifondazione. In questi due anni cosa è stato fatto per pigliare coscienza che l’antimafia non andava bene e che bisognava prendere provvedimenti? Forse allora andava bene. O se andava già male nessuno se n’è accorto. Come ha fatto a cambiare pelle dal 2008 ad oggi? Ed è inevitabile ancora chiedersi: Forgione è stato per due anni direttore responsabile della testata giornalistica di Telejato, conosce e conosceva il lavoro della redazione e l’impegno dell’emittente, altrimenti non avrebbe accettato un incarico così scottante: come mai, prima di scrivere giudizi sui quali la magistratura non si è ancora espressa e prima di mettere tutto nel sacco di “Abbasso l’Antimafia”, non ha sentito il bisogno di contattare i vecchi compagni, dai quali aveva preso le distanze quando era stato nominato Presidente, adducendo come scusa un’incompatibilità che non esisteva?

Non vogliamo neanche prendere in considerazione le allusioni sulle eventuali pecche di Libera che, con tutti i suoi limiti, oggi è un’espressione centrale dell’antimafia. Le mele marce possono trovarsi nel canestro, quando si gestiscono oltre 1500 associazioni. Su Addio Pizzo nell’articolo non si fanno riferimenti, ma si citano finanziamenti e sovvenzioni che sarebbero state elargite a pioggia alle associazioni antimafia. Non si parla neanche delle scuole e del silenzioso lavoro di tanti insegnanti che, al contrario di quanto scrive Di Girolamo, lavorano spesso gratuitamente o con pochi spiccioli per pagare le spese di ciò che occorre per portare avanti i loro programmi di educazione alla legalità.

Siamo arrivati al punto: può l’antimafia diventare un affare economico, essere impresa, produrre beni di consumo e guadagnare, far lavorare, certe volte gratis o col pagamento minimo delle spese di soggiorno, migliaia di ragazzi come volontari e, nello stesso tempo creare per loro momenti di formazione e di esplorazione del territorio? La risposta, con tutti i limiti e le riserve è sì, quando si tratta di portare avanti un modello economico diverso da quello mafioso, un’esperienza fondata sul rispetto della legalità. La gente deve sapere che un altro tipo di lavoro, un altro modo di lavorare è possibile, e questa cosa va cominciando a penetrare così come va allargandosi giornalmente il numero degli imprenditori che non vogliono più pagare il pizzo e che trovano un punto di riferimento nelle associazioni che si occupano di questo lavoro. Si dirà: fanno progetti, ricevono finanziamenti e li utilizzano per realizzare il progetto. Che c’è di male?

Non c’è un’antimafia vecchia da distruggere per poi edificare sulle sue ceneri un’antimafia nuova senza sapere da dove cominciare. Dove c’è la mafia, è nata o si trova per lo più anche l’antimafia. Non ha alcun senso buttare nel fosso la storia e tagliare un albero che presenta alcuni rami secchi, ma che rimane vivo e vegeto con i suoi virgulti che si rinnovano. Si tagliano i rami secchi, si individua dove sta il marcio per arrivare alla cura.

Ma dove sta il marcio? Cerchiamo di essere concreti ed evitare la demagogia: i soldi che girano attorno all’antimafia sono cifre irrisorie rispetto ai milioni di euro dell’economia illegale. Elemosine rispetto al giro parassitario che ha in mano potere e denaro e decide come utilizzarlo. A che serve prendersela con i destinatari di queste elargizioni che spesso sono poco più di elemosine

È vero che ci sono anche una cerchia d’industrialotti che hanno deciso di verniciarsi d’antimafia, per evitare fastidi e controlli, imprenditori rampanti che aderiscono alle associazioni antiracket, pur pagando il pizzo: ma è su questa gente che bisogna porre lo sguardo, sulla possibilità di scovare i loro percorsi sotterranei con la politica e con la mafia e di sequestrare loro tutto per affidarlo a chi ha voglia di lavorare seriamente. I tragediatori sono annidati lì dove la legge non arriva, perché essi stessi sono la legge o sanno come manipolare la legge. E pertanto faremmo bene a decretare l’autunno della politica o quello della magistratura, a progettare forme di democrazia partecipata, dal basso e riforme della giustizia dove, il giudice che deliberatamente fa un uso personale o distorto della legge, paghi per i suoi errori. Non i professionisti dell’antimafia, ma quelli della politica e della giustizia, quelli che non hanno mai fatto una seria giornata di lavoro e vivono comodamente sul lavoro degli altri. I padroni che sanno come impostare i loro figli e i loro amici. Non esiste l’antimafia dei magistrati, perché quello di perseguire i mafiosi è il loro lavoro. Idem dicasi per le forze dell’ordine. il lavoro L’antimafia non ha stagioni, non ha autunno: essa vive lì dove la gente lotta perché non riesce a soddisfare i suoi elementari bisogni, dove c’è fame di lavoro, di giustizia, di legalità, di nonviolenza, d’informazione corretta, di educazione e di formazione. È l’antimafia sociale. Ma queste cose chi ha militato a sinistra dovrebbe saperle. Purtroppo, proprio a sinistra esiste l’inveterata abitudine a dividersi, a credere che ognuno sia depositario della verità assoluta, dell’integrità morale, a considerare autentici nemici non i mafiosi, ma coloro che, anche per qualche sfumatura, la pensano diversamente. Insomma, a trasformarsi in “tragediatori”.

Ed è così che l’antimafia diventa tutta da buttare, eccetto la propria. Anzi, per alcuni, anche quella.

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Salvo Vitale

Salvo Vitale è stato un compagno di lotte di Peppino Impastato, con il quale ha condiviso un percorso politico e di impegno sociale che ha portato entrambi ad opporsi a Cosa Nostra, nella Cinisi governata da Tano Badalamenti, il boss legato alla Cupola guidata negli anni Settanta da Stefano Bontate.

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