Il nome di Elio Collovà è venuto prepotentemente alla ribalta dopo il servizio delle Iene trasmesso il 2/4/2017. È un amministratore giudiziario con una carriera di tutto rispetto di dottore commercialista, di revisore dei conti, di perito del tribunale sia della Direzione Distrettuale Antimafia di Palermo, incaricato di consulenze tecniche e di amministrazioni giudiziarie distribuite tra le procure di Trapani, Palermo, Agrigento, Caltanissetta, Messina e persino Cuneo. È considerato un autentico “esperto” delle misure di prevenzione, di sezioni fallimentari, di riciclaggio, di illeciti nella pubblica amministrazione, autore di risposte a quesiti e interpelli inoltrati al Ministero delle Finanze, per sette anni revisore dei conti del comune di Palermo e collaboratore della facoltà di giurisprudenza dell’Università di Bologna.
I primi incarichi risalgono agli anni ’90. Nel 1995 gli è stata affidata l’amministrazione dei beni sequestrati ad Antonino Madonia e successivamente ad altri mafiosi di spicco, come Nicolò Eucaliptus di Gela, Francesco Paolo Bontade, fratello di Stefano, Marcianò, Inzerillo, Mannino, Marcello Sultano, D’Agati Giovanni Francesco Zummo. A quest’ultimo, assieme a Francesco Civello, veniva sequestrato l’intero capitale il 23/9/2002, in quanto ritenuti prestanomi di Vito Ciancimino legati al re dei costruttori palermitani Vincenzo Piazza, suocero di Ignazio Zummo, figlio di Francesco e uomo della cosca mafiosa dei fratelli Graviano di Brancaccio, ai quali in precedenza erano stati confiscati beni per oltre mille miliardi di lire. Nel suo libro Confische spa Collovà racconta che, essendo andato in Toscana per una verifica su incarico del tribunale di Palermo, assieme a Cappellano Seminara, a bordo di una jeep, girarono per un’intera giornata senza riuscire a circoscrivere l’estensione dell’azienda agricola Savignano, già di proprietà di Giuseppe Piazza e affidata, in amministrazione giudiziaria, così come del resto tutti i suoi beni, a Cappellano Seminara. Ciò a riprova che egli non era estraneo al cerchio magico di Silvana Saguto e dei suoi amici.
Zummo, condannato, in primo giudizio a cinque anni, per concorso in associazione mafiosa. Il 15 aprile 2009 è stato assolto, assieme al figlio Ignazio (condannato a tre anni), alla moglie Teresa Macaluso e alle figlie Sonia, Gabriella e Flora, già assolte dal Gup. I giudici hanno disposto anche la restituzione dei beni che il Gup aveva confiscato. Gli Zummo sono anche assolti o prescritti dall’accusa di fittizia intestazione di beni, per 13 milioni di euro, in concorso con l’avvocato milanese Paolo Sciumè, il quale avrebbe dato indicazioni per occultare una parte del loro patrimonio in un paradiso fiscale, presso la ArnerBank, alle Bahamas, tramite uno dei suoi fondatori, Nicola Brivetti, molto legato a Berlusconi. Quasi tutti i beni degli Zummo, malgrado le assoluzioni e le disposizioni di dissequestro, sono sempre sotto amministrazione giudiziaria, oggetto di procedimenti per l’applicazione di misure di prevenzione. L’amministrazione giudiziaria è passata disinvoltamente da Andrea Dara a Elio Collovà e viceversa anche in altre aziende, tutte con sede in Viale Regione Siciliana 7275 Palermo.
Parallelamente a quella di Zummo si sviluppa la vicenda di Pietro Di Vincenzo, un imprenditore già presidente di Confindustria Caltanissetta. Arrestato nel febbraio 2002 con l’accusa di concorso esterno in associazione mafiosa, Di Vincenzo fu condannato in primo grado e assolto dalla Corte d’appello di Roma nell’aprile del 2008. Più recentemente è stato condannato dal tribunale di Caltanissetta a 10 anni di reclusione per estorsione ai danni dei suoi dipendenti, a cui avrebbe dato meno soldi di quanto risultasse in busta paga. Nella requisitoria al processo d’appello sulla confisca confermata i procuratori generali Roberto Scarpinato e Franca Imbergamo avevano sottolineato la vicinanza di Di Vincenzo con Angelo Siino, il cosiddetto ministro dei Lavori pubblici di Cosa nostra. Grazie alle sue collusioni con Cosa nostra avrebbe ingrossato il suo patrimonio. Accusa respinta dal difensore dell’imprenditore, l’avvocato Gioacchino Genchi: “Non c’è una sola sentenza a confermare l’assunto accusatorio della Procura generale che ritiene illegittima la provenienza del patrimonio”. Nel corso della sua arringa difensiva, Genchi aveva aggiunto: “Di Vincenzo pagava il pizzo, ha subito estorsioni. Sicuramente ha dovuto piegarsi ai compromessi e agli accordi che regolano il mondo dell’imprenditoria. Ha pure pagato il pizzo, ma se è stato sottoposto a estorsioni come si può affermare che era vicino alla mafia? Vi risulta che la mafia faccia pagare il pizzo a chi considera amico?”
I beni di Di Vincenzo, posti sotto sequestro, ammontavano a 280 milioni e furono affidati, nel 2009 ad Elio Collovà il quale grazie all’assenso delle procure di Palermo e Caltanissetta che lo avevano nominato diede vita a una nuova azienda, la AG Sinergie, con capitale di 6,4 milioni, nella quale confluirono i beni di quattro aziende del gruppo Zummo: con questi capitali comprò dalla Palmintelli di Caltanissetta, del gruppo Di Vincenzo, un’area di 5.400 m.q. al centro di Caltanissetta, con rispettiva concessione edilizia rilasciata, ottenendo da Banca Nuova un prestito di 9 milioni e affidando i lavori alla Di Vincenzo spa. Collovà ha dichiarato in un’intervista, che si trattava di un’operazione di 24 milioni di euro che dava lavoro ar una parte dei 500 operai della Di Vincenzo, per la costruzione di quello che ampollosamente fu definito il palazzo della legalità. Tutti, giornalisti, politici, magistrati, imprenditori, hanno decantato questa operazione di sinergia tra due imprese confiscate “geniale ed unica nel suo genere in tutta Italia”, cioè l’antimafia che diventa imprenditrice, con i risvolti positivi sull’occupazione, sull’economia e persino sull’assetto urbanistico.
Ma proprio sulle cifre c’è qualcosa che ha rimesso in discussione tutto il “sano e intelligente” operato di Collovà, a partire dalla vendita “a se stesso”, in quanto amministratore sia del gruppo che vende che del gruppo che acquista: la valutazione del terreno della Palmintelli, stimata in 6 milioni 400 mila euro, in realtà, come dal servizio delle Iene secondo gli intermediari intervistati, valeva meno della metà. All’atto della costruzione sono state rilevate alcune situazioni “abnormi” alle quali né Postiglione, prefetto Nazionale dell’Agenzia Beni Sequestrati e Confiscati, né lo stesso Collovà, che si è prestato all’intervista, hanno saputo rispondere. Primo fra tutti il doppio incarico di Collovà e quindi la doppia retribuzione di amministratore giudiziario e di presidente del consiglio di amministrazione della AG Sinergie. Il solo Collovà, nei sette anni di amministrazione giudiziaria avrebbe incassato 2 milioni di euro, ma la totalità dei compensi si aggira sui 10 milioni e comprende retribuzioni per incarichi dati a parenti, allo stesso figlio ingegnere, che avrebbe diretto i lavori, e all’architetto Teresi, fratello del noto magistrato, per i cui servigi sarebbe stata liquidata una parcella di 697 mila euro.
Intanto gli appartamenti sono stati messi in vendita al doppio del prezzo di mercato e nessuno li ha acquistati, mentre i circa 500 operai che ruotavano intorno alle imprese di DI Vincenzo sono stati messi in mobilitazione o disoccupati. Nel 2009, all’atto del sequestro la famiglia Passere aveva stipulato un contratto d’acquisto, sperando di prendere possesso della sua proprietà e scoprendo poi, che, in nome della legalità di cui si era fidata, il loro appartamento era occupato da un funzionario della DIA.
Alla fine si è arrivato al solito assurdo giudiziario: assoluzione penale, sia per Zummo che per Di Vincenzo e conferma della confisca preventiva dei beni
Oggi arriva la notizia di un sequestro conservativo di beni mobili e immobili a Collovà, disposto dal Tribunale civile di Palermo per un ammontare di tre milioni e 190 mila euro. Si tratta di un danno causato dalla curatela fallimentare della Las Vegas Bingo srl che ha citato in giudizio sia Collovà, sia gli eredi di Domenico Casarubea, ultimo amministratore della società poi fallita e sequestrata dall’Ufficio Misure di prevenzione e affidata a Collovà o alla confisca di due anni fa e alla sua riapertura grazie ad un accordo fra l’Agenzia nazionale per i beni sequestrati e una società del settore.
La sala Bingo sarebbe nata grazie a investimenti e riciclaggio di soldi del mafioso Nino Rotolo. Da parte della curatela fallimentare è stato chiesto il sequestro dei beni dei figli di Domenico Casarubia, processualmente assolti da tutto, assieme a quello dei beni di Collovà. Il giudizio per i primi è stato stralciato a seguito di problemi legati all’eredità, ma rimane in piedi perché, secondo la curatela Domenico Casarubea avrebbe sottratto alle casse societarie quasi due milioni di euro non consegnandoli al momento dell’insediamento di Collovà.
Secondo il giudice Claudia Spiga Collovà dal 2007 al 2012 non avrebbe presentato i bilanci di esercizio e così, senza la registrazione dell’ammanco di cassa, invece di cessare, la società sarebbe rimasta in vita continuando la sua attività e incrementando il passivo. Collovà sostiene di non avere amministrato la società, ma soltanto le quote sociali e di non avere potuto avviare la procedura di fallimento a seguito della confisca decisa dalla Saguto. Secondo quanto scrive il quotidiano Live Sicilia “Il giudice ha accolto il ricorso ed emesso l’ordinanza di sequestro anche in considerazione del pericolo che il creditore non veda soddisfatte le proprie richieste. Un pericolo che nasce dal fatto che Collovà ha costituito un fondo patrimoniale, poco dopo essersi dimesso dalla carica di amministratore”.
Il caso di Collovà, dopo quelli di Cappellano Seminara, Miserendino, Aulo Gigante, Provenzano, oggi sotto inchiesta, è l’ennesima dimostrazione di come sia stata gestita l’intera vicenda delle amministrazioni giudiziarie e dei danni da queste prodotte nel condurre i beni affidati.
Traggo spunto proprio dal caso sollevato dal programma televisivo Le Iene sul c.d. palazzo della legalità di Caltanissetta e gli affari dell’antimafia con la figura dello zelante (!!!) amministratore giudiziario dott. Elio Collovà. Pregevole servizio giornalistico di inchiesta che, per il vero, ha ricevuto il fondamentale contributo del giornalista nisseno Gianpiero Casagni. Riproposto, quindi, con corretta enfasi mediatica anche da Telejato e da Radio Radicale, nel corso di un’interessante intervista radiofonica all’avv. Gioacchino Genchi, difensore dell’ing. Pietro Di Vincenzo.
Ora, nessuno probabilmente è a conoscenza che nella misura di prevenzione patrimoniale a carico dell’ing. Pietro Di Vincenzo, già presidente regionale dei costruttori aderenti all’ANCE e per lungo tempo presidente della Confindustria nissena, ruolo dal quale venne “spodestato” (come falsamente asserito dai più noti “paladini della legalità”, con la cassa di risonanza interessatamente offerta dal teleimbonitore Rosario Crocetta da Gela, trattandosi in verità della naturale scadenza statutaria di un doppio mandato, non ulteriormente prorogabile) dall’allora giovane imprenditore Antonello Montante, non è stata disposta -incredibilmente- alcuna perizia, seppur reiteratamente richiesta dalle difese dell’imprenditore, in ogni sede del procedimento!
Ovviamente le perizie sui patrimoni sono disposte dai Tribunali per verificare la sperequazione fra il volume d’affari e gli investimenti di un imprenditore rispetto ai redditi ufficialmente dichiarati dallo stesso.
Paradossi che celano le più indicibili verità che prima o poi verranno fuori e faranno emergere un putrido verminaio di impronunciabili cointeressenze, anche in quel Tribunale che oggi si trova a processare il “caso Saguto”!
E sul già delegato della Confindustria nazionale per la “Legalità” il cav. Montante -designato e poi dimessosi dal Consiglio di gestione della Agenzia nazionale per i beni confiscati- ritengo sia ancora lecito domandarsi, per le correlate implicazioni del caso…chi fosse realmente costui? Forse c’è lo dirà, a breve, l’esito di una “blindatissima” inchiesta della Procura antimafia di Caltanissetta.
L’attività imprenditoriale del Gruppo Di Vincenzo, con le sue società operative, nel passato, ha assicurato lavoro a circa 1.500 dipendenti.
Fra l’altro l’imprenditore Pietro Di Vincenzo, al di là della assai comoda vulgata non ha alcun pregiudizio penale per reati di stampo mafioso, anche solo quali fattispecie aggravate dall’art. 7 della Legge del 1991.
Visto il richiamo e l’accostamento al più noto Ministro dei lavori pubblici di “Cosa Nostra”, il collaboratore di Giustizia Angelo Siino, mai esaminato nel contraddittorio delle parti (!), si coglie ancor più l’assoluta illegittimità della applicazione di una tale misura patrimoniale ai danni dell’ing. Di Vincenzo se solo si pone attenzione alla seguente affermazione, contenuta nella sentenza irrevocabile, n. 2350/2008 dell’1 aprile 2008, della Corte di Appello di Roma che ha mandato assolto il Di Vincenzo perché il “fatto non sussiste” dal reato di concorso in associazione mafiosa:«… Non ritiene infine questa Corte di condividere la sentenza impugnata, laddove ha indicato, quale riscontro al quadro accusatorio anzidetto, una dichiarazione rilasciata, nel corso di un altro processo, da tale SIINO, organico a Cosa Nostra per il settore dei lavori pubblici e collaboratore di giustizia. Quest’ultimo avrebbe dichiarato di avere conosciuto il DI VINCENZO come imprenditore contiguo all’organizzazione e particolarmente attivo nell’acquisizione di appalti.
Trattasi invero di affermazioni che, per la loro genericità e per l’assenza di qualsiasi riscontro obiettivo, non sono idonee a confermare alcun quadro accusatorio. …».
Non solo, nel processo conseguente alla operazione antimafia denominata “Free-Town”, l’ing. Pietro Di Vincenzo è stato riconosciuto vittima della consorteria mafiosa di Caltanissetta, con sentenza passata in cosa giudicata e, come vittima appunto, costituitosi parte civile, ha visto affermare, altresì, il suo diritto al risarcimento dei danni.
Certo, a carico dell’ing. Di Vincenzo c’è una condanna definitiva per “estorsione contrattuale” (per una somma indefinita in sentenza!) a carico di soli tre (!) dipendenti (degli uffici amministrativi), rispetto agli oltre 1500 salariati (operai) inizialmente ritenuti parti offese… Pensare che il Di Vincenzo, facendo la “cresta” sulle buste paga di tre dipendenti degli uffici amministrativi del Gruppo e non già sulla ben più vasta platea dei salariati (1500 operai!), avrebbe occultato ingenti (ma ignote nel loro ammontare!) risorse utili per chissà quali scopi delittuosi, fa sorridere qualunque essere pensante mediamente dotato!
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